22 maggio 2018 Di Silvano Malini

Fonte: Città Nuova

 

Maduro governerà il Paese per altri sei anni. Ma l’astensione superiore al 70%, in un’elezione dalle forti irregolarità, è comunque un colpo che non potrà non accusare

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«Il 20M è un messaggio sia per Maduro, che ora sa che il Paese lo rifiuta, che per i leader dell’opposizione, che deve rinnovarsi e conquistare la fiducia di tutti coloro che si oppongono al regime. Prevedo tempi duri per tutti». Questo non è che un semplice tweet #YAhoraQue (“E adesso?”) in circolazione dopo la giornata elettorale di domenica in Venezuela. Ma è una buona sintesi di ciò che è avvenuto. Secondo i dati ufficiali, il presidente Nicolás Maduro sarebbe stato rieletto per il periodo 2019-2025 col 67,8% delle preferenze contro il 21% del suo avversario immediato, l’ex chavista e ora oppositore Henri Falcón. Oltre 9 milioni i voti validi. Ovvero: solo il 46% degli aventi diritto sarebbe andato a votare.

Per il Frente Amplio invece – la coalizione di partiti e di organizzazioni della società civile che comprende anche la Mud, il “Tavolo dell’Unità Democratica” che aveva chiamato all’astensione, meno del 30% degli elettori si sarebbe recato alle urne. Le foto e i video diffusi dalla stampa estera, dalle agenzie e dai cittadini, e persino audio di autorità del partito di governo parrebbero confermarlo: seggi deserti, o con soli militari pronti a suffragare, moniti di dirigenti ministeriali ad «attivarsi», votare e «fare rapporto sul voto proprio e del personale subordinato» perché «l’amore si paga con l’amore», e se Maduro ha dato ai docenti un buono economico extra per la responsabilità, bisognerà pure ringraziarlo… Sono prove forti, anche perché non ci sono “controprove” o “verità alternative” attendibili. Anzi, non ce ne sono proprio.

Una nostra fonte, un docente universitario, ci racconta che il contrasto con l’ultima elezione vinta da Hugo Chávez con circa 7 milioni di voti su 12 di voti validi (e 14 milioni di elettori) salta subito agli occhi. Lunghe code, quella volta, fanno da contrappunto a sedie vuote, in questa opportunità. «Il responsabile della campagna elettorale di Falcón ha votato in un centro dove in quel momento era l’unico elettore presente». Lo stesso Maduro, nelle foto diffuse domenica mattina, ha votato in un seggio quasi deserto. Ma come, gli osservatori internazionali non hanno forse avallato il processo elettorale? Hanno parlato persino di una partecipazione degna, superiore a quelle di alcune elezioni europee… Beh, non proprio. Anzitutto, si tratta di “invitati” amichevoli (nessun inviato ufficiale dell’Unione europea, dell’Organizzazione degli Stati americani o dell’Onu, ad esempio), che oltretutto sono stati portati a certi centri di votazione scelti (non erano liberi di visitare qualsiasi seggio). E, soprattutto, le irregolarità sono cominciate ben prima dell’inizio della loro missione.

Da mesi i maggiori partiti dell’opposizione, in grado di raccogliere complessivamente il 60 % dei voti, come Voluntad Popular e Primero Justicia, sono stati prescritti, e sono ancora circa 300 i prigionieri politici nelle carceri venezuelane, tra cui l’ultimo avversario di Hugo Chávez e il primo di Maduro, Henrique Capriles. Alcuni di loro, come l’ex candidato Leopoldo López, sono agli arresti domiciliari. E poi occorre spiegare come funziona l’esercizio del voto per un cittadino venezuelano di questi tempi, e fare qualche semplice somma.

«L’apparato del partito assicura uno “zoccolo duro” di votanti del 25% – spiega a Città nuova una fonte vicina all’opposizione che preferiamo mantenere anonimo –, cifra raggiunta facilmente se si mettono insieme gli impiegati pubblici, i militari e i poliziotti (di fatto obbligati a votare) e i sei milioni di titolari della “tessera della patria», ovvero i beneficiari dei programmi di assistenza sociale o di vendita delle borse di alimenti sussidiati effettuate dai Clap, i Comitati locali di approvvigionamento e produzione, che, in un contesto di estrema scarsezza di beni di prima necessità, sono in franco aumento.

Certamente, questi ultimi non possono essere forzati a votare Maduro, e tuttavia sono oggetto di una forte coercizione, nel seguente modo: nei pressi dei seggi il governo istalla i cosiddetti “punti rossi”, per i quali il titolare della “tessera della patria” che ha appena votato deve passare per farsi scannerizzare la tessera e presentare il certificato di voto effettuato. Una volta fatta questa operazione, come ha denunciato Henri Falcón, vengono depositati 10 milioni di bolívares sul conto dell’interessato (ci si puó comprare due chili di carne…), come “ricompensa” per la sua responsabilità civica. Ma anche ammesso che il deposito in denaro sia solo una vile menzogna malintenzionata di chi è stato pesantemente sconfitto dalle urne, quel che è sicuro è che il titolare che non passi dal punto rosso sarà automaticamente defalcato dalla base dati dei beneficiari degli alimenti sussidiati e di eventuali altre prestazioni che a cui avesse diritto.

È vero: nessuno impedisce loro di votare per altri candidati. Non così, però per le 142 mila persone che hanno denunciato di essere stati accompagnati da un funzionario elettorale fino all’interno della cabina elettorale, in una pratica denominata “voto assistito”. Un altro fatto per lo meno sospetto è stata la risposta negativa del governo a un controllo e a una depurazione del registro degli elettori, chiesto dall’opposizione.

Nei giorni precedenti le elezioni, c’è chi ha ricevuto la cartolina elettorale senza essersi mai iscritto al registro nazionale degli elettori.

A fine febbraio, il partito del dissidente Henri Falcón e i tre partiti che appoggiavano la sua candidatura avevano firmato un “accordo di garanzie elettorali” con i rappresentanti dei partiti che presentavano la ricandidatura di Maduro. Con questo gesto, Falcón era rimasto isolato dal resto dell’opposizione (della Mud) per la quale le elezioni non si sarebbero svolte con le condizioni minime di libertà e legittimità democratica. Insieme a Falcón, i soli Javier Bertucci (un ex pastore evangelico) e il chavista dissidente Reinaldo Quijada erano stati ammessi alla competizione elettorale.

L’opposizione attendeva quindi il pronunciamento di Falcón dopo i risultati ufficiali delle elezioni, pronunciamento nel quale il candidato ha ripudiato non solo il risultato, ma anche l’intero processo elettorale, perché viziato da tali irregolarità. La ragione principale è stata il non rispetto dell’accordo di garanzie, che prevedeva la neutralità istituzionale (il partito di governo non avrebbe dovuto utilizzare le strutture dello Stato per la propria campagna elettorale) e la proibizione di istallare i “punti rossi” a una distanza inferiore ai 200 metri dai seggi. Entrambe le esigenze non sono state mantenute. Le prove delle violazioni della seconda sono evidenziate in numerose fotografie, e quelle della prima sono riscontrabili in audio diffusi via whatsapp. L’ultima “stranezza” è stata la pubblicazione dei risultati ufficiali da parte delle autorità elettorali in modo complessivo, senza gli scrutini seggio per seggio. Secondo alcuni oppositori, per questi motivi Nicolás Maduro non potrebbe assumere la presidenza nel prossimo periodo perché sarebbe incorso nel delitto della compravendita di voti.

Per affermare questo, i suoi detrattori si basano su un precedente. Dopo le ultime elezioni parlamentari, ai deputati per lo Stato dell’Amazzonia non era stato permesso di occupare le loro poltrone perché accusati di comprare voti in base a una registrazione audio nella quali chiedevano denaro per una manifestazione durante la campagna elettorale. Ebbene, domenica sono venuti fuori almeno tre audio attraverso whatsapp nei quali alti funzionari di ministeri o responsabili dei Clap ricordavano a loro subordinati “l’ordine” che avevano ricevuto di mobilitare i loro dipendenti affinché esercitassero il voto.

«Che non si intenda come una minaccia – si sente dire in un audio –, ma finora c’è pochissima partecipazione a livello dei Clap, e se si perde questo beneficio, non sarà responsabilità nostra. Non vi sto neppure dicendo di votare per questo o quel candidato: vi lasciamo liberi. Però votare è importantissimo». «Occorre bussare casa per casa – ammoniva un direttore regionale del ministero della Pubblica Istruzione –, è un ordine che dobbiamo compiere. “L’amore con amore si paga”, e Maduro vi ha dato il buono di responsabilità: non si può dimenticarlo. Abbiamo modo di sapere chi ha votato e chi no. Finora tanti di voi non hanno neppure dichiarato il loro voto, men che meno quello dei loro subordinati». E un governatore: «Non siamo arrivati a un livello di partecipazione sufficiente. Dobbiamo mettere in moto tutto il meccanismo dello Stato perché ci sono volpi in giro che pretendono di delegittimare il risultato basandosi sull’elevata astensione. È sicuro che vinceremo, ma dobbiamo stravincere con una grande partecipazione per chiudere loro la bocca. Alla carica!». L’accusa è quindi di istigare alla malversazione di denaro pubblico per fini elettorali particolari.

Come da copione, Stati Uniti, Unione europea e Osa hanno condannato con durezza l’illegittimità dell’atto elettorale. Donald Trump ha firmato un nuovo decreto per bloccare le operazioni finanziarie di dirigenti venezuelani negli Usa. I 14 paesi americani del Gruppo di Lima, nato per dare una risposta alla crisi venezuelana, hanno richiamato in patria i loro ambasciatori. Da parte sua, Maduro ha ringraziato il popolo ed ha promesso dialogo con l’opposizione e con tutti i settori della società. «Mi vedrete in giro per tutto il Paese per attivare i motori dell’economia. Non è facile, non è poca cosa la guerra che hanno fatto al popolo affinché non votasse», ha dichiarato, assicurando «giustizia» per chi ha cercato di boicottare le elezioni.

«E adesso?», ci si chiede. É chiaro che una via d’uscita elettorale è e sarà impraticabile per un bel pezzo. L’opposizione cerca soluzioni che non è stata in grado di trovare finora, neppure negli ultimi mesi nei quali non era difficile pronosticare una situazione come quella attuale. «Non ci sono formule magiche – dice un passaggio del comunicato del Frente Amplio –, ma abbiamo una rotta definita: aumentare fortemente la pressione internazionale, rafforzare l’efficacia della protesta sociale, unificare le nostre proposte per la transizione e il riscatto del Venezuela e ottenere dalle forze armate che compiano e facciano applicare la Costituzione… Non ci sono soluzioni facili, né una decisione perfetta. L’unico punto fermo è che non possiamo arrenderci. E non lo faremo».

Maduro, nonostante le dichiarazioni altisonanti, sa che il colpo è stato duro. Continua a perdere pezzi, non solo tra l’elettorato, ma anche tra i chavisti della prima ora. La maggior parte dei comandanti delle forze armate gli è ancora fedele. I benefici che il governo assicura loro sono troppo allettanti. Tra i principali, il “controllo” delle frontiere, in uno scenario nel quale il contrabbando è estremamente redditizio. Servirà un irrigidimento della sanzioni internazionali per obbligare il governo, sempre più limitato nell’investire all’estero (Russia, Iran e Cina sono ancora mercati aperti, ma la forza dell’economia venezuelana continua a cadere in picchiata), a farlo nel proprio Paese, provocando una lenta uscita dalla crisi? O cresceranno le proteste da parte di una cittadinanza che ha sempre più timore della repressione? Ciò che senz’altro aumenterà è l’esodo dei venezuelani verso altri Paesi. Forse, per ora, questa è l’unica certezza.

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