Di Michele Zanzucchi
Fonte: Avvenire

La gravissima situazione che già da qualche mese stava sconvolgendo la vita dei cittadini libanesi ha, al solito per queste terre martoriate, trovato la sua esemplificazione nella gravissima esplosione che martedì ha provocato un centinaio di morti e 4 mila feriti nella capitale Beirut. Da tempo ci si aspettava il collasso di una società al bordo della disperazione, ma pochi si immaginavano che prendesse la forma terribile del fungo di fumo che si è levata dal porto della capitale. Da un paio d’anni Akram Nehme predica la ‘teoria del collasso’: il Libano periodicamente avrebbe cioè bisogno di collassare per ripartire. Nehme è un caro amico e un social worker. Che cosa significa? Che da qualche tempo si è messo a fare pacchi di viveri per le famiglie di ‘nuovi poveri’ della vecchia classe media provocati dalla crisi economica (il cambio è passato in pochi mesi da 1.500 a 10mila lire libanesi per dollaro). Ma lui stesso non immaginava che gli impiegati della sua attività e sua moglie sarebbero stati colpiti direttamente da tale ‘collasso’, rimanendo feriti nell’esplosione. E così centinaia e migliaia di libanesi, impotenti dinanzi alla gravissima situazione politica libanese, evocano ormai il ‘collasso’ per ripartire.

Forse è arrivato. Le voci ufficiali già cercano di offrire in pasto all’opinione pubblica una versione plausibile dell’esplosione di martedì, attribuendola a una catena di concause concentrate attorno a un deposito di nitrato di ammonio, materiale solitamente usato sia per produrre esplosivi che fertilizzanti. Ma nessuno ci crede a Beirut. E forse ci vorranno decenni per appurare le vere cause dell’esplosione, che arriva in un momento cruciale per la società libanese. Il degrado della vita politica ha infatti avuto uno sbocco nello scoppio della thaoura, la rivoluzione di piazza che dal 17 ottobre 2019 ha portato nelle strade mezzo Paese contro la corruzione e il malgoverno, per una convivenza civile, per una libertà non di facciata. La politica ha reagito cambiando governo, ma il nuovo esecutivo guidato dallo sconosciuto Diab appare immobilizzato dai veti incrociati provocati da un sistema di ‘democrazia confessionale’ che è stata ridotta a una semplice spartizione della torta. Si è poi aggiunta la crisi sanitaria del coronavirus, che sta crescendo proprio in queste settimane. E sullo sfondo c’è il conflitto mai risolto tra una serie di potenze legate a Israele e una serie contrapposta di attori legati invece all’Iran.

Non si può dire che sia una lotta tra sciiti e sunniti, anche se taluni elementi sembrerebbero avvalorare tale tesi. Ebbene, questa tensione internazionale, che da anni ha provocato nella regione (Iraq, Siria, Libia, Yemen e naturalmente Libano) un gran pezzo della Terza guerra mondiale a pezzi – nel senso che tutti gli attori internazionali di rilievo (salvo forse l’India) sono presenti nella regione se non altro per fare affari col petrolio e il gas, e magari pure con le armi -, è salita a tal punto che ci si attendeva un climax, una qualche esplosione. Ma nessuno o quasi immaginava che sarebbe avvenuto al porto di Beirut in un modo così devastante. Nessuno parla ancora esplicitamente di terrorismo, ma l’idea è presentissima in tutte le personalità politiche che aprono bocca (anche se per ora solo Donald Trump ha parlato di attentato) ed è dato per scontato che i fatti di Beirut in un modo o nell’altro sono in ogni caso ricollegabili alle tensioni della regione. Chi avrebbe fatto cosa in concreto? Nulla è chiaro nella nebbiosa palude di azioni di servizi segreti e di interventi tramite i marchingegni della guerra elettronica e digitale, di manovre politiche e di loschi traffici di società fantasma che avvengono ogni giorno nella Terra dei cedri. Forse serviranno decenni per svelare l’arcano, come ci saranno voluti 15 anni per capire cosa era successo nell’attentato all’allora premier Rafik Hariri, ucciso nel 2005, e la cui sentenza dovrebbe essere emessa – guarda caso – proprio in questi giorni all’Aja.

I libanesi sono un popolo meraviglioso, dotato di qualità fuori dal comune: resilienza, sussidiarietà, creatività. Se fosse lasciato libero dalle potenze straniere che ne condizionano la vita politica, economica e sociale, in due o tre anni il popolo tornerebbe ad essere il custode della ‘Svizzera del Medio Oriente’, come si diceva una volta, prima della guerra civile. I libanesi sono in effetti divisi ma anche uniti in 18 comunità confessionali riconosciute, che hanno la peculiarità di non riuscire mai a diventare maggioranza. Sono così ‘condannate’ alla convivenza. Ma che queste 18 entità possano andare d’accordo, dipende dalla libertà di pensare e agire che viene o non viene lasciata loro. Cosa può fare la comunità internazionale? Proprio il Libano è ancora il teatro di una delle iniziative più encomiabili messe in atto dall’Onu, l’Unifil, che dal 2006 garantisce la sicurezza della frontiera israelo-libanese, facendo da cuscinetto tra i militanti di Hezbollah e i soldati della Stella di Davide.

Ebbene, perché non allargare le competenze di una tale forza ed estendere la protezione all’intero Paese, garantendo nel contempo internazionalmente un’Assemblea costituente che possa rivedere la prima legge del Paese e gli accordi di Taef, per trasformare la democrazia confessionale alla libanese in un sistema più consono alla vita civile e sociale di oggi? L’occasione c’è, la tensione è tale che gli stessi attori principali in campo, a partire proprio da Israele e Iran, avrebbero interesse a favorire una nuova, positiva composizione della complessità libanese. L’Europa potrebbe, se lo volesse, essere il vero motore di quest’iniziativa. Ma ne ha la volontà politica? Ha la forza di dire: siamo tutti libanesi?
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