di Letizia De Torre
Partecipando al simposio dei sindaci convocati dalla Pontificia Accademia delle Scienze e dal Sustainable Development Solutions Network per il 21 e 22 luglio 2015, mi si è confermata la convinzione che è sulle città che può poggiare il cambiamento. Oggi più ancora di ieri.
In due giorni di intenso confronto sui cambiamenti climatici e sulla lotta alle schiavitù moderne, mai vi sono state né una parola di sterile polemica politica, né posizioni egoistiche, né tanto meno difese del proprio spazio di potere. Ogni sindaco ha offerto le idee e le buoni prassi della propria città e ha espresso la massima disponibilità a cooperare. È questo è l’esatto contrario della inconcludente difesa dei propri confini da parte delle nazioni.
Le città, ha detto Jeffrey Sachs, uno dei maggiori economisti esperti in sviluppo sostenibile, sono le hub del cambiamento.
Si lo possono essere. E va sottolineato che, particolarmente in questa turbolenta transizione di inizio millennio, sono il luogo per eccellenza per affrontare almeno tre problematiche odierne: i fenomeni migratori epocali e la crescente multiculturalitá della popolazione; la dimensione globale e inedita dei problemi che abbiamo difronte dall’inquinamento all’allargarsi delle disuaglianze; la necessità urgente di rigenerare la democrazia e di costruire una nuova governante mondiale.
Gli almeno 50 autorevoli sindaci che hanno preso la parola, rigorosamente 10 minuti, – sia rappresentassero ricche città occidentali oppure città di un mondo che ancora fatica a uscire dal sottosviluppo – hanno fatto chiaramente capire che hanno le idee chiare e non sono per nulla intimoriti dagli epocali cambiamenti in atto, ma anzi se la sbrigano bene e, in mezzo ad un mondo in ebollizione, sanno costruire e custodire coesione sociale, partecipazione e sviluppo. Per intuire la fatica, talvolta tanta, ma soprattuto la loro passione bastava guardare gli occhi di questi sindaci quando parlavano dei loro concittadini e dei percorsi per renderli partecipi dello sviluppo della città.
Le città sono il luogo vero della politica – ed infatti polis significa città – e dunque sono la speranza di questo tempo e dovremmo dare loro spazio, ruolo, voce. Speriamo che la 70ima Sessione delle Nazione Unite, il prossimo settembre 2015, abbia il coraggio di farlo.
Siccome ritengo che intorno alle città occorra anche costruire un pensiero politico che dia ragione di questa loro capacità e resilienza, ripropongo una parte di una mia precedente riflessione, che ho leggermente rivisto e che mi pare ancora valida per aprire una discussione.
Le città sono vive !
Uno sguardo superficiale alle città del terzo millennio, le potrebbe far apparire come piccoli Davide davanti a Golia. ‘Città panico’ [1], le ha descritte il filosofo e urbanista francese Paul Virilio, che in realtà non hanno luogo. “Ho paura delle città”, fa dire Sartre al suo eroe de La Nausea. E Zygmunt Bauman: “Le città sono divenute discariche per i problemi causati dalla globalizzazione” [2]. Analisi gravi, che paiono annunciare una sconfitta delle città.
Direi utopia il mio Ideale…
Nei giorni che seguirono la Seconda Guerra Mondiale, quella che era arrivata a concepire città della morte come Auschwitz, Chiara Lubich si trovò a percorrere le strade di Roma: “sozzura e vanità ora la domina nelle strade e più nei nascondigli delle case”, scriveva. “Sozzura e vanità”, che nella città oggi prendono dimensioni globali ed esistenziali…
Chiara reagisce non sfuggendo, ma facendo proprie le enormi difficoltà del dopoguerra a Roma e riandando al cuore della sua scoperta durante la guerra, quando per lei e per quel primo gruppo di ragazze, sulle macerie di Trento si stagliò l’Amore: Dio come Amore. E da quello sguardo scrive, su un periodico diretto da un deputato di allora, Giordani, un articolo dal titolo “Rissurezione di Roma”. Ne riporto un breve passo:
“Passo per Roma e non la voglio guardare. Guardo il mondo che è dentro di me e m’attacco a ciò che ha essere e valore (…) Vedo e scopro la mia stessa Luce negli altri (…) e mi riunisco a me risuscitandomi (…) nel fratello e compongo una cellula viva (…).
Così l’amore circola e porta naturalmente (per la legge di comunione che v’è insita), come un fiume infuocato, ogni altra cosa che i due posseggono per rendere comune i beni dello spirito e quelli materiali. E (…) si diffonderebbe in un baleno per Roma” “Allora tutto si rivoluziona: politica e arte, scuola e religione, vita privata e divertimento. Tutto.”[3]
Questa esperienza, di ‘spiritualità politica’ la direbbe Max Weber, ha luogo nella ‘città eterna’ ed è quindi simbolicamente un’esperienza universale, per tutte le città. Richiederebbe ben altre autorevoli voci per sondarla profondamente. Ma qui ci basti accogliere questa preziosa indicazione: ciò che rende viva la città è la relazione tra persona e persona, tra gruppo e gruppo, tra quartiere e quartiere. Una relazione che chiama a raccolta tutta la capacità di altruismo che c’è in me per riversarlo sull’altro, diverso da me, fino a farlo divenire vicendevole e fino a renderlo amore sociale.
Risurrezione delle città ?
Quelli che seguono sono spunti per verificare se è proprio vero che sia il paradigma della relazione che possa far risorgere le città da tanti punti di vista: politico, sociale, economico, culturale, in controtendenza con chi presagisce la loro fine.
Negli anni 90’ si è aperta la speranza di un nuovo compito politico delle città. E’ coinciso con la tensione a costruire l’Unione Europea fondata sui popoli e non sulle nazioni. In Italia vi è stata una fase in cui i sindaci, eletti direttamente, hanno preso rilievo ed hanno guidato la politica nazionale appena scossa da ‘tangentopoli’[4]. Si potrebbe sostenere che hanno supplito ad un vuoto politico, ma è più vero che è la politica che ha bisogno delle città. Proprio come durante la decadenza morale e politica della Grecia nella Polis prese corpo la democrazia, come dopo il declino del feudalesimo si ridestò la vita cittadina ed aprì nuovi orizzonti alla cultura e alla storia, così nel terzo millennio le città possono alzarsi in piedi e dire una parola nuova alla politica di oggi.
Le città sono vive!
Ma quale parola? In ‘Le due città’ Igino Giordani affermava: “In politica (…) si perde gran parte del tempo (…) perché non si riesce a costruire l’accordo tra i cittadini e tra gli stessi dirigenti: l’egoismo apre continue frane sino a ridurre la città (…) a un cumulo di rovine morali, città dei morti, dove gli uomini s’aggirano a mò di fantasmi…”.
Giordani, ‘cristiano ingenuo’ come si definiva, sa dove si può trovare nuova linfa e, dunque, conclude: “E invece il Vangelo esige una città di vita (…), dove la morte è morta”.[5]
A noi tutti, credo, è noto un sindaco che amò incredibilmente la vita delle città e, particolarmente, della sua città d’adozione: Firenze. Riecheggia ancora forte il grido di Giorgio La Pira: “Le città sono vive!”[6]. Anche La Pira, come Giordani, intese la politica come amore disinteressato alla propria gente e attraverso questo potere dell’amore impresse qualcosa di indelebilmente vivo e proteso alla pace nel mondo nella sua ‘bella e misurata Firenze’.
Declino degli stati assoluti
Ed ecco un elemento oggettivo che ha a che fare con le relazioni istituzionali e personali e che rende politicamente vive le città. Oggi gli Stati sono troppo piccoli per governare questioni (tutte, anche gli affari interni) che travalicano i loro confini, non sono più dunque ‘stati assoluti’. E, pur dibattendosi per non cedere il potere nazionale, vanno via via comprendendo che si debbono unire in Comunità più ampie come l’Unione Europea o come il Mercosur o come l’Unione Africana o l’Organizzazione della Cooperazione Centro-Asiatica. I cittadini – in tale scenario senza orizzonti, tra il tracollo di una finanza selvaggia e quotidiani spostamenti di popoli – si sentono anonimi, insicuri, soli e cercano (e si rifugiano in) identità semplici, circoscritte e definibili.
Tra queste due tensioni (mondializzazione e identità ristretta) riprende importanza il luogo dove ciascuno vive e può stabilire relazioni. E’ un primo dato di fatto che ci dice che in questa fase della storia possiamo e dobbiamo ancora una volta scommettere sulla città.
Governo vicino ai cittadini
Un secondo elemento è che, di fronte ai difetti del centralismo statale, molte città hanno dimostrato di saper stabilire un buon rapporto tra Amministrazione e cittadini, organizzandosi meglio, utilizzando più efficacemente le risorse.
Afferma lo storico Campanini: “Emerge ormai con chiarezza che il luogo autentico della cittadinanza moderna non è più lo Stato, ma la Città … come un processo di evoluzione dello Stato moderno verso una diversa dislocazione della cittadinanza … che si situa dunque su due piani, uno generale (lo Stato e, aggiungiamo, la Comunità di Stati) e uno particolare (la Città); e questo secondo piano va costantemente crescendo perché più strettamente legato alla vita concreta delle persone”[7] .
Due culture di città: quella ‘fra le mura’
Si possono definire due ‘culture’ di città, che sono anche due culture di appartenenza alla propria comunità. La prima come opportunità di difesa da una aggressione o dallo straniero (anche non necessariamente nemico); come protezione della gente che vive in quel luogo o, meglio, di una maggioranza unita da legami di sangue, di religione, di economia. Una città, dunque, che si difende dentro le mura (non importa se come le antiche, fatte di pietra o come le contemporanee, fatte di cellule fotoelettriche). Vi sono libertà e solidarietà, ma chiuse in se stesse. In simili città ciascuna famiglia, ma anche ciascun individuo, possono costruirsi una propria vita del tutto indipendente dagli altri, un po’ come avviene in un condominio dove si può godere del massimo confort e della massima sicurezza anche solo mandando un delegato alle riunioni di condominio.
La città dell’amicizia civile
La seconda cultura di città esprime le ragioni dello ‘stare insieme’ in una comunità locale: quelle della collaborazione e della ‘amicizia civile’, di cui parlava già Aristotele. In questa secondo tipo di città tutto è finalizzato non alla difesa, ma alla relazione e collaborazione.
In esse prende corpo la politica, come capacità di costruire legami più ampi di quelli affettivi o economici per la produzione di beni privati. Il grande merito storico della polis, infatti, è proprio l’avere operato “la distinzione tra una sfera di vita privata e una pubblica” [8] il merito di aver aperto le porte delle case per fondare la dimensione più ampia e più libera della comunità locale, dove i nuovi legami ‘vanno oltre’ quelli del sangue e quelli utilitaristici, sono volti al bene di tutta la città, sono dunque legami della polis. Sta qui il significato denso del termine ‘politica’, come fraternità civile dentro la città.
La città sollevata dal basso
Tutta la costruzione della città può dunque essere tesa a favorire questa fraternità civile come ben-essere di ciascuno e della comunità nel suo insieme, a creare “le condizioni perché ciascuno, cittadino, famiglia, associazione, azienda, scuola, possa esprimere la propria personalità e realizzare la propria vocazione dando il meglio di sé. Per questo, certamente, sono necessarie, da parte dell’amministrazione, le competenze, le capacità tecniche e manageriali. Ma più in profondità, a chi governa la città si domanda di fermarsi ad ascoltare i cittadini e prendere su di sé i loro problemi. (…) Il governo, in tal modo, non si impone, ma rispetta tutte le identità e tutti i compiti. E’ agile e flessibile, pronto a cogliere la priorità che si presenta al momento presente. La città, così, non viene governata dall’alto, ma è sollevata dal basso, e la politica assume il ruolo dello stelo che sostiene il fiorire delle iniziative pensate dai o insieme ai cittadini; diventa un vero servizio, unificando verso il bene comune gli sforzi di tutti.” [9]
Il paradigma comunitario
Si mette così in gioco un diverso rapporto tra l’istituzione e l’insieme di tutti i cittadini, cittadinanza che deve mantenere pienamente la sua autonomia, nella linea luminosamente indicata dai teorici del primato della società civile: da Rosmini a Tocqueville, da Maritain a Sturzo. Una città che potrebbe esprimersi in nuove e moderne forme di autonomia cittadina in una ampia cornice comune e solidale del territorio a cui appartiene.
Come ammoniva Dossetti, il rinnovamento della politica passa “attraverso la formazione e la immissione attiva nel corpo sociale di quelle isole rarissime che meglio rispondono, già attualmente, alle premesse personalistiche e comunitarie “.[10]
Ma tornare alle radici del modello comunale richiede di andare alle fondamenta del paradigma comunitario. “Di fronte ai rischi di dissoluzione del legame sociale, la solidarietà, pur essendo un principio irrinunciabile, rischia di rivelarsi un criterio politico “debole”. (…) fraternità e solidarietà non sono affatto la stessa cosa. (…) La fraternità è assai più esigente della solidarietà. (…) La fraternità, al contrario della solidarietà gestionale e umanitaria, è attenzione incondizionata all’altro e presuppone che la mia libertà non si possa realizzare senza la libertà degli altri e che a questo titolo io ne sono responsabile.”[11]
Moltiplicare ed estendere queste isole di fraternità, di sensibilità civica, di attenzione al bene comune, di partecipazione alla vita della città, è condizione essenziale perché la crisi dello stato moderno non si trasformi nella crisi irreversibile della città.
Dalla città partecipata alla concezione cooperativa dei livelli di governo
La città in cui si vive la democrazia partecipativa – e sono sempre di più quelle che, per assumere decisioni, scelgono e conducono con competenza processi partecipativi e deliberativi – sembrano avere compreso bene che, come diceva Shirin Ebadi, Nobel per la Pace 2003, “La democrazia non è solo andare a votare, ma è uno spirito che va coltivato nel tempo, come un fiore. Se la dimentichiamo muore.” Rispondendo in tal modo all’emergenza democratica di oggi, si rigenera la democrazia, la ri-attualizza, la rende effettiva e densa.
In tal modo ci si apre anche alla “concezione policentrica della politica, (…) superando l’approccio dei livelli o delle gerarchie del potere politico. In una visione compiutamente “cooperativa” dei diversi ambiti politici, è assai più appropriato riferirsi alle “sfere” di governo (europea, nazionale, regionale, provinciale), tutte distinte ma al contempo tutte interdipendenti ed interrelate.[12] Lo esprime bene Altusio[13], con la sua intuizione della “consociazione” di diversi e concentrici ambiti di governo, che hanno origine proprio nella vita politica comunale.” [14]
Seguendo queste linee-guida si può identificare il contributo specifico dei Comuni al processo di ripensamento delle istituzioni locali e internazionali.[15]
La città grandi assenti negli assetti geopolitici
In questo inizio del terzo millennio tanti, troppi territori sono scenario di guerre, tanto da far parlare di ‘terza guerra mondiale a pezzi’. Le cause sono complesse e, forse, stiamo pagando il conto di tanti errori politici del recente e meno recente passato. Troppi popoli sono forzatamente parte di aeree geopolitiche non scelte e subiscono soprusi da parte di grandi potenze che mirano ad accrescere la propria influenza o ad assicurarsi fonti energetiche e materie prime preziose. L’accettazione del diritto all’autodeterminazione di ciascun popolo, sottolineata dal pensiero sociale cristiano, è ancora una meta lontana.
Anche le regioni più tranquille, in vero, reclamano oggi una maggiore autonomia manifestando la propria capacità di gestione locale, col pericolo, però, che si passi dall’accentramento nazionale a quello regionale e che vengano meno la solidarietà, l’uguaglianza e la libertà, nel senso di scegliere dove vivere avendo le medesime opportunità.
Le tensioni all’autodeterminazione e all’autonomia sono legittime e corrette, se scevre da interessi economici o di supremazia di stati su stati, ma sono comunque tensioni disequilibrate. Non si tiene infatti conto dei comuni. Dovrebbero essere le città a sovra-organizzarsi, a conferire insieme ad autorità o enti di gestione il governo di alcune materie o l’amministrazione di alcuni servizi. E – detto con un termine del linguaggio militare dell’antica Roma (dove esistevano truppe di retroguardia che dovevano entrare in campo ‘in subsudium’ a quelle di prima linea se queste non ce la facevano da sole) – ogni comune dovrebbe vedere entrare in campo enti locali o stato o unioni solo in modo ‘sussidiario’. Sappiamo che non è così e le città vengono fortemente mortificate dal sovra-potere di enti che esercitano su di esse una illimitata autorità, deturpando fortemente la democrazia.
Le città: una rete oltre i campanili
Un’entità statale o regionale o federale, infatti, amplia sì gli orizzonti della comunità municipale soggetta al ‘rischio campanile’[16], ma fa questo mettendo più comuni sotto un campanile più alto, senza trasformare le dinamiche istituzionali da ‘ingessate’ a ‘relazionali’. Le città, invece, se vivono appieno la loro identità, sono capaci di costruire legami con le città vicine (per condividere, ad esempio, la gestione dei servizi urbani) e contemporaneamente con le città più svariate del mondo. Tessono così una tela che tiene solidamente unito il territorio locale, ma travalica i confini costruendo corridoi, legando le aree più lontane. Ecco perché sia la ‘governance’[17] locale che quella mondiale deve avere origine o basarsi o almeno porre come priorità le città.
In una città le appartenenze coesistono con la mondialità
Si potrebbe obiettare che costituire una rete concentrica di governance con al centro il comune potrebbe portare con sé il pericolo di frammentazione e di egoismi locali, ma si può dimostrare che una città ha risorse per vincere l’auto-referenzialità. In esse le appartenenze possono essere coltivate senza chiudersi l’una dall’altra e l’una contro l’altra. Le città contengono cattedrali e sinagoghe e moschee e templi e luoghi del pensiero. All’interno del Comune non ci sono confini e quando, per deviazioni storiche, vengono eretti non resistono al tempo e prima o poi sono abbattuti o aggirati. Neppure le “mura esterne” oggi garantiscono sicurezza (nemmeno i controlli ad alta tecnologia): la città vincente è quel luogo che donne e uomini, a qualunque popolo essi appartengano, abitano in pace, cooperando per il comune bene. La sicurezza oggi più efficace è quella garantita da tanti cittadini che custodiscono il tesoro condiviso del dialogo e della convivenza e che, fieri delle proprie radici ed identità, sanno accogliere con prudenza e lungimiranza. La città, in una parola, è il luogo della permeabilità, dello scambio incessante, dell’autoformazione alla conoscenza dell’altro.
Si comprende perciò come il ruolo delle città sia insostituibile in un tempo in cui il mondo è diventato un immenso e caotico villaggio globale.
Dalla città al mondo
La «città locale» e la «città mondiale» sono dunque due dimensioni indivisibili e complementari della politicità di questo terzo millennio. Affrontare in modo corretto l’apparente duplicità tra autonomia delle città e governance delle grandi Unioni geopolitiche, e della governance mondiale stessa, tra identità e globalizzazione, tra comunità e mondialità, tra diversità e unità costituisce il maggiore contributo alla soluzione delle cause profonde delle crisi internazionali.
Ecco, quindi, un altro compito delle città oggi: esse rappresentano, in questo precario equilibrio ‘glocale’, il particolare, il piccolo, il locale e assicurano al mondo di oggi, dal respiro affannato e dall’assenza di orizzonti, di poter respirare con i due polmoni in tutte le sue dimensioni e le sue attività. Permettono a ciascuno di noi di riprendere continuamente il ritmo di una vita che ha bisogno estremo della sicurezza di relazioni vive e stabili, ma è assetata anche di spazi senza confini come è da sempre il cuore di ogni uomo.
Conclusione: città unite per unire i popoli
Dopo tutto quello che è stato detto, per affermare ancora una volta come le città sono luoghi di costruzione della pace basta ricordare la loro peculiare strategia: “Ciò che caratterizza propriamente il Comune è l’impegno solenne di formare un solo corpo, in seno al quale tutti i partecipanti si considerano come uguali. I membri di un Comune sono sempre definiti come ‘congiurati’ (con-jurati), legati dal giuramento che fa di loro una persona collettiva” [18].
E per riconoscerle come peace makers basta guardarle come laboratori all’interno dei quali esistono e si sperimentano nuovi equilibri e nuovi assetti politici e sulle quali investire per creare reti internazionali che si investano sempre di più delle tante tematiche aperte dell’umanità inquieta del terzo millennio e diano un apporto creativo anche in senso politico alla composizione di grandi unità geopolitiche. “Unire le città per unire i popoli” può essere un buon slogan del terzo millennio. La Pira lo completava così: “unire i popoli per unire il mondo” [19].
[1] Paul Virilio, Cittàpanico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004
[2] Zygmunt Bauman, Fiducia e paura nella città, pag. 19, Mondadori, 2005
[3] In Nuova Umanità, XVII 1995, n. 6, pagg. 5-8
[4] Da Treccani: il malcostume di pretendere e incassare tangenti, ossia somme di denaro richieste in cambio di favori, concessioni o altre forme d’intermediazione illecite da parte di chi èin grado d’influenzare la buona riuscita di tali affari o pratiche. Per estensione, il fenomeno, lo scandalo delle tangenti nella pubblica amministrazione e in ambienti politici. L’uso del termine si èaffermato a partire dal 1992 in seguito alle inchieste giudiziarie svolte dalla magistratura di Milano e successivamente condotte anche in altre cittàd’Italia, che portarono alla dissoluzione di alcuni partiti storici italiani
[5] Igino Giordani, Le due città, p. 405
[6] Riflessione sulla Cittàin G. La Pira, Le cittàsono vive, a cura di Montanari, La Scuola, Brescia 1979
[7] G. Campanini, Lo Stato e la Città; Aggiornamenti Sociali, pag 394, maggio 2000.
[8] H. Arent, Vita activa, Bompiani, Milano 1964, pagg. 34 e ss.
[9] Chiara Lubich, La fraternitànell’orizzonte della città, Al Consiglio comunale di Trento, 8 giugno 2001
[10] G. Dossetti, Problematiche sociale del mondo d’oggi, 1951, in ID, Scritti politici, a cura di Trotta, Marietti, Genova, 1995, pagg. 282 e ss.
[11]Bruno Mattei, La République n’est pas fraternelle, “Le Monde”, 21.5.2002
[12]Cfr. Costituzione del Sudafrica, articolo 40 e ss.
[13] Giovanni Altusio (Diedenshausen 1557 – Emden 1638), pensatore politico e giurista tedesco, formandosi ai principi del calvinismo. Per Altusio, l’uomo èun animale politico, socievole per natura. La societàsi fonda su qualcosa di naturale. Ma tale tendenza, secondo Altusio, non deve far dimenticare che l’adesione alla societàviene da una decisione volontaria, una scelta piùo meno consapevole che compie l’individuo. Chi accetta di vivere in un certo luogo,”firma”, per cosìdire, un contratto nel quale ognuno esprime il suo consenso a vivere in una determinata società, si impegna ad obbedire alle leggi, rispetta i suoi costumi, si sottomette all’autoritàdello stato.
C’èdunque una differenza tra Altusio e i pensatori politici di scuola aristotelica, i quali fondavano la società(lo stato, la polis) sulla natura associativa degli individui. Altusio compie un passo oltre, osservando che la stessa libertàdell’uomo puòindurlo ad aderire alla societàed allo stato in modo piùconsapevole, mediante un contratto. Con Althaus riemerge il punto di vista individuale, il diritto del singolo, dopo che Machiavelli e Bodin, o lo avevano ignorato, o persino negato. La scienza politica deve dedurre i suoi principi dal contratto sociale. Qui essa trova anche i mezzi necessari a conservare la societàe l’ordine, stabilendo con la legislazione civile il modo in cui la legge morale e le leggi divine devono applicarsi alla società. La sovranitànon viene da Dio, ma dal popolo, ovvero dal corpo unico, (corpus simbioticum, corpo dei conviventi).
[14] Documento di lavoro del Convegno ‘Cittàper l’Europa, Trento, 6 giugno 2003
[15] A tale proposito si veda il Manifesto per l’Europa, Innsbruck 10 novembre 2001: “… siamo fermamente convinti che tale disegno [dell’ Europa unita] può venire pienamente realizzato solo assumendo la fraternità come categoria politica attraverso la quale sviluppare la costruzione dell’Europa. Questa nuova dimensione dell’impegno politico per l’Europa può essere realizzata in primo luogo a livello delle città, dove i cittadini vivono rapporti di prossimità e di reciprocità e il loro accesso alle istituzioni è personale, immediato, continuo.”
[16] In Italia per intendere che un borgo, una cittàsono in continua e accesa competizione con le altre si usa riferirsi alla torre delle campane della chiesa (campanile) simbolo dell’identitàdella cittàstessa, da cui ‘campanilismo’.
[17] Il termine inglese ‘governance’indica qualcosa di molto diverso dal ‘government’. Quest’ultimo rappresenta la classica piramide istituzionale: stato, regione, comuni con una rigida divisione dei poteri. La governance –o governo delle reti –èla modalitàtipica della gestione partecipata e dinamica in cui, tra il resto, il pubblico èsolo un nodo della rete, ma con speciale compito di garanzia per la rete stessa.
[18] Bernard Voyenne, Histoire de l’idée fédéraliste, Parigi-Nizza, Presses d’Europe,t. III, 1981, p. 164, cit. in Il Federalismo – cenni storici e prospettive politiche, Attilio Danese, Città Nuova, Roma 1995
[19] G. La Pira, Testo scritto a Leningrado nel luglio 1970 e pubblicato in “Il sentiero di Isaia”, Cultura Nuova Editrice, Firenze 1979
Scrivi un commento