Una buona notizia: i terroristi baschi segnalano e riconsegnano le loro armi. Anche se non tutti sono convinti della sincerità dell’operazione, la scelta pubblica di disarmarsi ha valore e indica che in quella direzione si vuole andare. Riflessioni sui passi necessari per arrivare alle soglie della risoluzione del conflitto e di una vera riconciliazione.

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È stato annunciato per l’8 aprile, con un atto simbolico e allo stesso tempo effettivo: l’organizzazione terrorista basca consegnerà i zulos, cioè i nascondigli che accolgono il suo ridotto (si pensa così) arsenale alle autorità francesi. I principali promotori di questa riconsegna definitiva delle armi, tra i quali una Commissione internazionale di verifica (Civ), cercano di muoversi nella più stretta discrezionalità. E lo si capisce. Solo l’annuncio, pubblicato il 17 marzo nelle pagine del quotidiano Le Monde, ha scatenato un ventaglio di reazioni che vanno dalla più sincera approvazione allo scetticismo razionale e fino alla risentita condanna.

La localizzazione dei diversi nascondigli sarà comunicata in un documento, probabilmente alla polizia, allo scopo di procedere nel modo legale adeguato. Sarà un atto discreto, senza pubblicità, in un posto ancora da decidere, che avrà poi il suo termine a Baiona, dove gli intermediari civili leggeranno un comunicato finale. Il Civ ha previsto di spiegare all’opinione pubblica i particolari del processo dal 9 aprile in poi.

L’annuncio, di per sé una buona notizia, ha però suscitato le più diverse reazioni. Mentre il Basque Friendship Group, gruppo nel Parlamento europeo che sostiene il processo di pace nei Paesi baschi, ha manifestato la sua soddisfazione, chiedendo ai governi francese e spagnolo di non ostacolare tale processo, altri esponenti politici dichiarano invece una certa diffidenza. Così il presidente del governo regionale basco, Íñigo Urkullu, vede in questa operazione un «piccolo passo, non sufficiente» verso un necessario disarmo totale. La critica nasconde una mal celata accusa all’Eta di aver fatto le cose in modo unilaterale, senza prendere in considerazione i tanti sforzi della società basca per risanare le ferite. Bisogna chiarire che, mentre l’Eta rappresenta il nazionalismo indipendentista, Urkullu e il suo partito (Pnv) sono la voce di un nazionalismo non indipendentista.

Tra le righe bisogna anche leggere una lunga rivendicazione della società basca a proposito dei carcerati dell’Eta, quasi 400. Basta fare una passeggiata a Bilbao o in un’altra città basca per vedere pendere dalle finestre i cartelloni Etxera, simbolo della richiesta di far «tornare a casa», cioè alle prigioni del Paese basco, i condannati dell’Eta. La politica di dispersione dei carcerati li tiene oggi distribuiti nelle carceri spagnole e francesi, mentre il Collettivo dei prigionieri baschi (Eppk) e le loro famiglie li vorrebbero più vicini.

Fa impressione, ad esempio, a Ondarroa, città di 8.500 abitanti, vedere nelle strade alti pali che indicano i nomi dei vari carcerati del posto e i chilometri di distanza a cui si trovano (nella foto uno di questi cartelli segnaletici). In questa stessa direzione, il Tribunale europeo dei diritti umani ha già emanato una sentenza contraria all’allungamento delle permanenze in carcere per i terroristi dell’Eta, pene che in certi casi sono a vita. Risolto questo problema, che forse è la spina nel fianco politica più pungente che esista tra il governo centrale e quello regionale, forse saremmo alle soglie della risoluzione del conflitto e di una vera riconciliazione.

 

Fonte: www.cittanuova.it