La crisi politica in pieno agosto, favorita dalla Lega per capitalizzare il consenso crescente del partito nel Paese (secondo la posizione espressa dal proprio leader Salvini tanto al capo dello Stato Mattarella quanto al presidente del Consiglio Conte nei giorni precedenti la caduta del governo), non ha portato a nuove elezioni.
Ciò che era negli auspici degli appartenenti al partito accreditato da una maggioranza relativa nei sondaggi (non ancora voti reali, si badi bene), si è trasformato nella formazione di una nuova maggioranza parlamentare, che ha appena superato lo scoglio della fiducia per il nuovo governo Conte, ribattezzato Conte-bis o Conte 2.
La coalizione “inedita” tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico (più la partecipazione di Liberi e Uguali, a confermare una certa trazione progressista), ha destato stupore per il mettersi insieme di forze che molto si sono criticate e contrastate nel recente passato. Tuttavia, tutto si può dire della novità politica del momento tranne che si tratti di un ribaltone fuori dai canoni o dalle possibilità concrete, dal momento che giova ricordare come i pentastellati si fossero rivolti proprio al PD quale possibile alleato di governo prima di chiudere l’accordo con i leghisti.
Si è trattato di un golpe istituzionale? Tutt’altro, considerato il formarsi di uno schieramento con numeri sufficientemente solidi in Parlamento, dato dai seggi dei primi due partiti in termini percentuali nelle elezioni svoltesi il 4 marzo 2018.
Inoltre Mattarella aveva ampiamente annunciato che le consultazioni avrebbero avuto lo scopo di palesare possibili maggioranze alternative. Si tratta allora di un tradimento politico del mandato popolare? Nient’affatto, visto che le tre forze politiche principali coinvolte nella crisi si erano presentate alle elezioni come totalmente alternative le une alle altre e che il contratto di governo giallo-verde, la carta di impegno alla base del Conte 1 (una sorta di unicum nella storia istituzionale italiana), non è sembrato più rassicurante o più vincolante del programma di governo giallo-rosso, alla base del Conte 2 appena iniziato.
Si tratta, infine, di un vulnus per la democrazia rappresentativa? Si potrebbe eventualmente leggere così il mancato ritorno alle urne, ma solo se in Italia fosse già maturo e rodato il meccanismo di partecipazione e di condivisione tra elettori ed eletti, se il Parlamento rappresentasse veramente un organo centrale per la vita politica del Paese, quella “casa di vetro” nel quale vedere specchiate le esigenze e le priorità dei cittadini e della comunità civile, che diventano leggi in nome della responsabilità dei rappresentanti del “popolo sovrano”.
Ma ciò risulta ben lontano dalla situazione attuale, nella quale il grado di disgregazione sociale e di disaffezione politica è anche frutto di una stucchevole ed irresponsabile campagna elettorale permanente, con riferimenti strumentali a problematiche serie (lavoro, sicurezza, migrazioni, scuola, sanità, ambiente), che la politica – in quanto attività di costruzione delle soluzioni e garanzia del corretto funzionamento della macchina statale – dovrebbe richiamare non in cerca di consenso, ma prima di tutto per la spinta al bene comune, quello che prima di “colorarsi partiticamente” parla al nucleo essenziale, alla spina dorsale della società e del Paese.
E allora, che cosa ci lascia in dote l’attuale passaggio politico nazionale, oltre al consueto scontro politico al calor bianco, sempre weberianamente segnato dal livore con cui travolgere il nemico di turno, magari alleato fino a pochi giorni prima? Mi vengono da pensare almeno tre elementi, per provare a leggere la difficile mappa politica attuale.
In primo luogo bisogna dire che se non si ha un’idea di Paese e il personale politico e tecnico per realizzarla, non esiste struttura statale né società organizzata.
Il principio di competenza, la formazione della classe dirigente non rappresentano un lusso o un argomento d’élite, da smantellare per combattere la casta, ma l’articolazione imprescindibile che non conosce appartenenza partitica, perché dovrebbe rappresentare un pre-requisito necessario alla comprensione delle necessità, alla soluzione dei problemi, all’articolarsi ordinato ed efficiente del sistema-Paese. Quando il pensiero dominante è l’elogio del qualunquismo e del popolare (siamo tutti uguali), espressione non supportata dall’invito all’impegno e al sacrificio, necessari alla crescita; quando il collante principale di una società è il sospetto; quando non si ha paura di sdoganare l’odio e una certa dose di razzismo, per quanto vengano da categorie arcaiche e da momenti storici rimossi o non sottoposti al vaglio critico e aperto della discussione pubblica, la società cambia ed evolve, ma non in meglio.
Come secondo elemento di analisi, bisogna ribadire che non si può ribaltare la propria storia istituzionale, la propria appartenenza strategica in nome di convinzioni politiche e modelli novecenteschi.
Pur guardando criticamente al fenomeno della globalizzazione e alle sue conseguenze economiche e sociali, che hanno segnato in modo profondo gli ultimi vent’anni del secolo XX e i primi vent’anni del secolo XXI: big data, big corporations, etc.; pur assistendo con una certa preoccupazione a fenomeni epocali non sempre accompagnati da processi di controllo e di gestione, si pensi al fenomeno migratorio, che mette in discussione realtà consolidate dal punto di vista sociale, economico, religioso, costringendo a ripensare modelli di vita e sistemi di valori (accoglienza, inclusione, diritti), appare difficile pensare alla nazione come il nucleo fondante della società di domani, pur rispettando storia, tradizioni e specificità di ogni territorio. Non si può dimenticare il percorso europeista, l’appartenenza mediterranea, la scelta atlantista compiute dall’Italia, che già in se stesse contengono riferimenti al dialogo, alla collaborazione, all’ideazione di spazi plurali, nei quali la preposizione che precede la parola italiani (sarà “prima” o sarà “con”?) è riferimento storico, ma anche vocazione aperta al futuro.
Infine, occorre dire che se destra e sinistra sono categorie politiche non più attuali, non più reali, questo significa maggiore responsabilità per i cittadini.
Che cos’è la destra, cos’è la sinistra? cantava Giorgio Gaber un po’ di anni fa, sostenendo che al netto della divisione nei due schieramenti, era il contenuto ideologico alla base di un riferimento a destra come a sinistra a rappresentare il vero pericolo capitale. Perché? Semplicemente in quanto l’ideologia ti propone un sistema, un modo di vedere la realtà rispetto al quale puoi solo aderire, perché se resti fuori sei altro, sei irresponsabile, diventi nemico. Va sottolineato che qui non si parla di privilegiare il libero mercato o demonizzare la proprietà privata; confermare l’amicizia con gli Stati Uniti o sostenere un ritorno della Russia ai tavoli negoziali, ma piuttosto di creare luoghi di dibattito politico, di costruzione di un Paese che voglia guardare al futuro con la passione di chi sente oltre alla responsabilità del fare, anche la ricchezza dell’ascoltare, il dovere dell’accogliere, la straordinaria e appagante fatica del costruire.
FONTE: CITTÀ NUOVA
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