di Pasquale Ferrara
Nonostante lo stato critico in cui si trova oggi l’integrazione europea – al punto di far temere persino l’avvio di un processo di disintegrazione – è indubbio che non sono affatto pochi né trascurabili i risultati che l’euro-esperimento della libera circolazione ha offerto ai cittadini del vecchio continente.
Lasciando da parte le questioni controverse della moneta unica e del modello di economia liberale (che purtroppo ha progressivamente perduto per strada alcuni suoi essenziali tratti sociali), la libera circolazione delle persone costituisce un fenomeno unico nell’ampia gamma delle organizzazioni internazionali. Una conquista prevista già nei Trattati di Roma del 1957, ma che solo con il Trattato di Schengen, a partire dal 1996, comincia a divenire un fatto concreto, con l’abolizione di ogni controllo di frontiera tra i Paesi membri.
Una libertà di circolazioneche unita, ad esempio, allo straordinario successo del Programma Erasmus (che consente ai giovani universitari di compiere periodi di studio presso altre università europee e non solo) ha contribuito a creare un superficiale e forse utilitaristico senso di appartenenza allo spazio europeo, senza però aver generato alcuna identità politica comune.
Un utilitarismo che ha rivelato tutti i suoi limiti al primo stormir di fronde, dinanzi cioè alla crisi dei rifugiati che ha investito l’Europa dall’estate del 2015. Intendiamoci: non si tratta certamente dell’abolizione di Schengen, ma di una serie di “sospensioni” decise da vari Paesi, a diversi livelli, e che ha coinvolto anche la stessa Germania. Il ripristino temporaneo dei controlli di frontiera – misura tecnica prevista dal Trattato – non significa affatto che la libera circolazione sia finita. Essa va persino oltre i confini dell’Unione europea, perché include anche Norvegia, Svizzera, Islanda, Liechtenstein, mentre non ne fanno parte Bulgaria, Cipro, Croazia, e Romania, Paesi per i quali il trattato non è ancora in vigore, e Irlanda e Regno Unito, che se ne sono volontariamente tenuti fuori sin dall’inizio.
Tuttavia mettere Schengen tra parentesi è un segnale politico grave, che può resuscitare un nazionalismo 2.0, come dimostrano le tensioni che si sono generate tra Italia e Austria all’annuncio fatto da Vienna (che però non ha avuto sinora alcun seguito operativo) di voler erigere una barriera al confine del Brennero. Tutto ciò dimostra che l’approccio funzionale (come l’abolizione dei controlli di frontiera) non basta più a dare un senso politico all’Unione europea, e che dunque per poter superare lo stallo gli europei si debbono seriamente interrogare sulle ragioni più profonde della loro “unione”. Un esercizio che dovrebbero fare i popoli, più che i governi.
Fonte: Cittanuova
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