Dopo un primo articolo che ha cercato di spiegare le ragioni dell’attuale situazione di conflittualità in Myanmar ed aver stigmatizzato le critiche pesanti che vengono rivolte ad Aung San Suu Kyi, accusata di essere complice nella tragedia del popolo rohingya , un accenno alla storia ci ricorda che il 25 agosto 2017 ci fu un attacco nello Stato del Rakhine, da parte dell’Arakan Rohingya Salvation Army, con un totale di 71 persone uccise, tra cui 12 militari. In risposta a questo attacco, la reazione da parte delle forze dell’ordine, il Tatmadaw, è stata tremenda, con centinaia di morti, villaggi rasi al suolo e 700 mila persone in fuga verso il Bangladesh. Un’emergenza umanitaria senza precedente. Da decenni, va detto, le lotte tra musulmani e buddhisti andavano avanti da quelle parti, ma mai era accaduta una cosa del genere. Soprattutto il mondo musulmano, ma non solo (vedi papa Francesco in piazza San Pietro e poi durante la sua visita il 27 novembre 2017 in Myanmar, allorché incontrò il capo delle forze armate, il generale Min Aung Hlaing), hanno ripetutamente chiesto all’esercito del Myanmar, nei suoi massimi esponenti, di «fermarsi», riconoscendo la cittadinanza ai rohingya nati sul suolo del ‘’Paese d’oro’’, come viene chiamato anche il Myanmar, e iniziare la difficile opera di rimpatrio e pacificazione nazionale.
Tutto questo non è stato realizzato, con la conseguenza che la comunità internazionale si è scagliata con la de facto rappresentante del governo del Myanmar, guarda caso Aung San Suu Kyi, già premio Nobel per la pace del 1991. Le Nazioni Unite, nelle settimane scorse hanno dichiarato che ci possono essere gli estremi per incriminare le massime autorità dell’esercito del Myanmar per crimini contro l’umanità: un’accusa che l’ex Burma ha rifiutato e respinto con decisione. Il Myanmar si trova così, al momento, in una posizione quasi d’isolamento nella comunità internazionale: continuare a negare, da parte delle forze del Myanmar, non conviene e non è più credibile. Si deve trovare una forma per andare avanti e salvare almeno la faccia dei contendenti. Altrimenti il rischio è di tornare alla guerra civile. Si attende a breve una decisione del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America sui diritti umani, cosicché il Myanmar potrebbe ricevere delle sanzioni commerciali in merito, con ripercussioni a livello internazionale.
È ormai chiaro che l’esercito, il tanto temuto Tatmadaw, non è sotto il controllo del governo e tanto meno di Aung San Suu Kyi. Ci sono in pratica due centri di potere. Il bilancio delle forze armate, ad esempio, è stabilito in modo autonomo dal governo, con 2,14 miliardi di dollari annuali che rappresentano circa il 14% delle spese complessive dell’intero Paese: una cifra assurda, se si considera che povertà, malnutrizione e mancanza di lavoro spingono centinaia di migliaia di immigrati economici ancora oggi verso il confine con la Thailandia (affamata di lavoratori a basso costo per le sue industrie e servizi) in cerca di un futuro migliore. L’operato dei militari è nettamente svincolato da quello dell’esecutivo, che poi si ritrova a dover tamponare i guai causati dai generali che sono abituati da 70 anni a pulizie etniche e impunità. Il problema è far capire loro che i tempi sono decisamente cambiati, anche in Myanmar.
Gli estremisti nazionalisti buddhisti gettano benzina sul fuoco (basti pensare al monaco Wirathu, soprannominato dal Time Magazine «il Bin Laden buddhista» per il suo incitamento contro i musulmani): da anni combattono sia i musulmani che Aung san Suu Kyi, ritenuta troppo vicina alla minoranza cristiana, troppo accomodante e poco nazionalista. Essi vogliono portare scompiglio e vorrebbero far cadere il «governo della signora», guidato dal fronte democratico attualmente al potere. In un Paese con 135 etnie ufficialmente riconosciute, con i militari che portano avanti una loro politica autonoma, con 5 fronti aperti contro 5 etnie (chin, shan, karen, kachin e rohingya) dove attualmente si combatte contro 21 gruppi armati, e con 3 “genocidi” (o qualcosa di simile) in corso (contro rohingya, kachin e shan), non è facile gestire l’equilibrio nazionale.
Poco si parla del genocidio contro i kachin, principalmente cristiani. In Italia solo il nostro giornale ha affrontato la questione suscitando peraltro grande interesse. Eppure è altrettanto drammatico ed urge una condanna e non il silenzio dalla stampa internazionale. Recentemente The Guardian e Ucanews hanno in effetti dedicato dei servizi a questo popolo sterminato principalmente perché cristiano. Una grande ingiustizia che passa sotto silenzio. Il sentimento comune della maggioranza degli abitanti del Myanmar pare il seguente: «Aung San Suu Kyi sta lavorando per l’unità del Paese, per la pace e non per un nuovo conflitto. È per questo che è stata ed è estremamente cauta nelle sue prese di posizione», dice un esponente del popolo kachin. Se eccedesse, aggiungiamo noi, darebbe una scusa ai suoi nemici per espellerla dal consesso politico nazionale.
Ritengo che le parole del card. Charles Bo del 10 settembre scorso, a Yangon, come riportato da Ucanews, possano essere prese come un chiaro monito e un’indicazione per la comunità internazionale: «Nelle mani di Aung Sann Suu Kyi il popolo del Myanmar ha investito la propria credibilità per un Paese in pace e prospero. La storia del Myanmar è punteggiata di ferite: ora, questo è il tempo per curare tali ferite e non per aprirne di nuove. Termini estremi come “genocidio”, “pulizia etnica” e “sanzioni” non accompagneranno più il nostro Paese in questo viaggio verso la pace e la democrazia. La via necessaria è quella di accettare il ruolo di tutte le parti in conflitto per una pace duratura e per risolvere tutti i problemi». Il cardinale ha continuato affermando che il governo civile e i militari devono lavorare di concerto per dare speranza a un grande Paese: «Chiedo a tutti gli amici del Myanmar di riconoscere questa realtà ed aiutare il popolo birmano a risolvere i loro problemi».
La comunità internazionale fatica a capire che, senza Aung San Suu Kyi o con una sua delegittimazione a livello internazionale, col discredito del suo operato passato e presente, si prospettano nuove guerre e conflitti interni tra le diverse etnie. Non c’è bisogno di una nuova Libia in Asia.
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