di Alberto Lo Presti
Negli anni cupi della Guerra fredda ci sentivamo tutti sull’orlo del precipizio. Inquella posizione difficile era necessario mantenere l’equilibrio. La principale paura era che un pazzo salito al potere potesse premere un bottone sbagliato e scatenare l’inferno nucleare. Per questo la classe politica era perlopiù composta di persone compassate, le quali dovevano infondere sicurezza con un portamento e una loquacità ridotti al minimo sindacale. Dovevano essere figure sobrie, pacate, riservate, attente all’uso di ogni singolo concetto, di ogni avverbio e proposizione, di qualsiasi virgola. Ci voleva un sacco di tempo per intervistare uno di questi politici, tanto lenti erano alla risposta ed estremamente prudenti nel consegnare all’opinione pubblica le strategie del proprio partito politico. Della loro vita privata si sapeva pocoo niente. Era impossibile che chi deteneva il potere di sterminare il genere umano potesse essere distratto da una moglie avvenente, o da passioni extra-politiche di qualsiasi tipo. Il leader non veniva selezionato per chissà quale dote superiore, o per genialità creativa, ma per la capacità di individuare i punti di equilibrio di sistemi sociali complessi, feriti dalla lotta ideologica, costantemente esposti al rischio bellico. Quella era l’epoca(anno più, anno meno) dei vari Willy Brandt ed Helmut Kohl, Giscard D’Estaing e François Mitterrand, Giulio Andreotti e Aldo Moro, Richard Nixon e Gerald Ford, Harold Wilson e Margaret Thatcher, Felipe González e José María Aznar. Un’eccezione singolare fu Nikita Kruscev, a cui successe Breznev. Se si vuole capire perché Kruscev fu l’unico presidente sovietico a terminare il mandato senza morire al Cremlino, è sufficiente ricordarsi di quando sbatté ripetutamente la scarpa, in segno di protesta, sul tavolo dell’assemblea dell’ONU. Era un gesto che oggi attirerebbe attenzione e consenso, mentre nel 1960 era proprio fuori dal tempo. La paura di allora era in mezzo alla gente, frutto della diffusa consapevolezza che gli esiti delle lotte planetarie avrebbero travolto tutti, nessuno escluso.
La situazione odierna è assai diversa. Quel senso di paura collettiva s’è trasformato in nsicurezza individuale, mettendo radici nel profondo dell’esperienza di ogni singolo cittadino. Le cause di questa radicalizzazione sono diverse e molteplici. Le più evidenti chiamano in causa la mobilità e la precarietà nel mercato del lavoro, l’interdipendenza economica, i processi migratori, le sfide poste dalla convivenza in contesti segnati dal pluralismo etico e religioso. La paura non ha più una dimensione collettiva, nonostante sia avvertita da tutti, ma individuale. Anche per questo i sondaggi politici oggi funzionano poco. Se uno ci chiede cosa pensiamo, rispondiamo “a lui” in una determinata maniera. Se ce lo chiediamo dentro di noi, e questo accade nella cabina elettorale, tutto diventa possibile. In questo modo si arriva a sovvertire i pronostici e a dare il consenso a Trump, Le Pen, Grillo, Salvini o alla Brexit.
Il clima di incertezza stravolge il modo di concepire, e formare, la classe politica. Il leader che vuole diffondere sicurezza deve ostentare il proprio successo personale, per cui parla e straparla con creatività e inventiva. È lui stesso considerato la soluzione dei problemi, non il suo partito politico o la sua ideologia. Stavolta il leader deve mettere in campo tutto il suo umore geniale, deve mostrare di avercela saputa fare negli affari, deve esibire le conquiste in campo sentimentale. Il fatto che spesso questi leader carismatici risultino ignoranti di politica, non conoscano il “politicamente corretto”, facciano continue gaffe, ignorino i meccanismi istituzionali non è per loro uno svantaggio, ma un punto di forza. In questo modo, infatti, dichiarano la loro prossimità con l’uomo qualunque e, siccome l’uomo qualunque è insicuro, e la persona insicura predilige l’uscita dallo stallo determinato dalla complessità politica, il gioco è fatto. I movimenti antipolitica godono da matti in questo frangente storico. Più sono trasandati nel loro linguaggio culturale, più si mostrano alieni alle regole istituzionali, più esibiscono deficit nelle competenze politiche, più guadagnano voti. Matematico e drammatico, allo stesso tempo.
Come uscirne? Forse dovremmo piantarla di rivendicare le apparenti buone ragioni di una volta, quando eravamo tutti intrappolati nella polarizzazione ideologica, e il nostro istinto di salvezza ci costringeva a “fare comunità”, a organizzarci secondo schemi tanto efficaci quanto obbligatori, e l’apparato dei partiti politici era tanto solido quanto moralmente fragile. Mi sembra poi quanto mai inadeguato l’atteggiamento strisciante che ogni tanto affiora nel dibattito politico odierno, animato dai populismi, secondo cui c’è sempre qualche cospiratore che trama nel buio e impone le sue oscure decisioni, asservite solo ai grandi interessi di poche lobby economiche o finanziarie. È un modo per tirarsi indietro nella lotta, perché, qualora esistesse tale grande burattinaio, è chiaro che ciascuno di noi avrebbe poche chances di sovvertire le cose. Tale vecchio e sbagliato modo di pensare e di agire nasconde una duplice esigenza. Chi sostiene la tesi della cospirazione, difatti, vuole mostrare l’ingenuità degli altri, considerandoli non in grado di capire come va veramente il mondo, e al tempo stesso rivendica per sé il ruolo di sopravvissuto alla narcosi collettiva, l’unico rimasto con gli occhi aperti, vigile e cosciente, in mezzo a una massa di illusi. Le élite esistono, altroché, ma, come rilevato più volte dagli studi politologici dell’ultimo secolo, sono tante, nemiche fra di loro, escono ed entrano dalla scena politica, a volte vincono e a volte perdono. Si tratta di stanarle, di concorrere con loro, in modo trasparente, per riuscire a seminare i princìpi e i valori positivi a cui crediamo, attraverso la diffusione di buone pratiche e di un solido pensiero.
La partita non è affatto persa, è appena cominciata.
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