21 marzo 2018
Secondo uno studio pubblicato oggi dalla Banca mondiale, gli effetti del cambiamento climatico in atto nelle tre regioni più densamente popolate al mondo provocheranno entro il 2050 migrazioni interne di 140 milioni di persone. Con quali conseguenze?
Secondo uno studio della Banca mondiale, gli effetti del cambiamento climatico in atto nelle tre regioni più densamente popolate al mondo provocheranno entro il 2050 migrazioni interne di 143 milioni di persone.
Lo studio si concentra su tre macro aree: l’Africa subsahariana, l’Asia meridionale e l’America Latina. Nel loro insieme queste tre aree rappresentano il 55% dell’intera popolazione dei Paesi in via di sviluppo.
L’impatto del mutamento climatico in atto provocherà un innalzamento del livello del mare e mareggiate sempre più frequenti e violente, ripercuotendosi sulla disponibilità di acqua per uso umano e agricolo. Reggeranno le infrastrutture – politiche non solo – di queste macro-aree all’incremento della migrazione interna che toccherà il 2,8% della popolazione?
«Siamo ancora in tempo per anticipare le conseguenze dei cambiamenti climatici», spiega la direttrice della Banca mondiale Kristalina Georgieva. Ma in assenza di interventi seri, il flusso migratorio interno provocherà una sorta di population shock, svuotando le aree rurali e incrementando la pressione su quelle urbane.
Il flusso migratorio interno, da qui al 2050, potrebbe così riguardare 86 milioni di persone in Africa, 40 milioni in Asia del Sud, 17 milioni in America Latina. In particolare la Banca mondiale si è concentrata su tre casi di studio: Etiopia, Bangladesh, Messico.
Le migrazioni interne, qualora si attuasse il peggiore scenario previsto dalla Banca mondiale, avrebbero impatti sistemici gravissimi, accentuando le disuguaglianze e provocando possibili rovesciamenti politici.
Il caso Siria: guerra e clima
Tra il 2007 e il 2010, un’ondata eli calcio e siccità senza precedenti si abbatté sulla Siria. Pochi mesi dopo, marzo 2011, nel Paese guidato da Bashar al-Assad alcune manifestazioni di piazza davano inizio a una lunga, cruenta guerra civile.
A oggi, e a conflitto ancora in corso, si contano oltre 300mila morti eli milioni di sfollati. Secondo l’UNHCR, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono 6,6 milioni i migranti interni, oltre 4,8 coloro che hanno cercato miglior sorte in Turchia, Libano, Giorda-
nia, Egitto e Iraq in conseguenza del caos scatenatosi.
Esiste dunque un legame tra questa siccità, mutamento climatico e guerra? Può un rapido cambiamento nel clima essere annoverato fra le concause decisive di un conflitto? Se lo sono chiesti in molti, ma uno studio condotto da ricercatori della Columbia e dell’università della
California, pubblicato dall’Accademia delle Scienze americana, sembra portare solidi elementi alla risposta affermativa. In Climate Change in the Fertile Crescent and Implications of the Recent Syrian Drought una connessione viene tentata e, in parte, provata.
A causa della siccità del triennio 2007-2010, la stima del numero di sfollati interni è stata pari a 1,5 milioni. La maggior parte dei migranti si è trasferita dalle campagne alle periferie delle città della Siria, periferie già gravate da una forte crescita della popolazione (~ 2,5% all’anno) e dalla presenza di 1,2, forse 1,5 milioni di rifugiati che, tra il 2003 e il 2007, arrivati dall’Iraq in conseguenza della Seconda Guerra del Golfo.
Nel 2010, i rifugiati iracheni e i migranti interni (internally displaced persons) rappresentavano già circa il 20% della sovrapopolazione urbana in Siria. La popolazione totale del Paese, nel 2002 era di 8,9 milioni, ma alla fine del 2010 aveva già raggiungo i 13,8 milioni, con un aumento di oltre il 50% in soli 8 anni. Lo shock della popolazione (population shock) nelle aree urbane ha accresciuto il fabbisogno di risorse. Un fabbisogno che la crisi climatica aveva già portato sulla soglia della tollerabilità.
«La velocissima crescita delle periferie urbane – leggiamo tra le pagine di Climate change in the Fertile Crescent and implications of the recent Syrian drought – contrassegnate da insediamenti illegali, sovraffollamento, infrastrutture povere, disoccupazione e criminalità sono state trascurate dal governo e sono diventate il cuore dei disordini. Pertanto, la migrazione causata dalla grave e prolungata siccità ha esasperato alcuni fattori cruciali, quali la disoccupazione, la corruzione e la disuguaglianza crescente, contribuendo ai disordini».
Il mutamento climatico è considerato un fattore cruciale nello stress sistemico che può portare all’innesco di un conflitto. Se sia stato un fattore primario sostanziale è impossibile determinarlo, di certo è una concausa e altrettanto certo è che i confini che il mutamento climatico ha iniziato a cancellare sono proprio quelli, già relativamente fragili, dell’uguaglianza sociale e alla contrapposizione natura-società. Ossia, i collanti di un sistema.
Società e natura si rivelano interconnessi proprio quando scoprono le loro nervature più fragili e un disastro ambientale può oggi mostrare, più di qualsiasi guerra, che fra produzione del rischio e esposizione a quel rischio vi è una sempre più tenue barriera difensiva. Nonostante i tentativi di esportare l’esposizione in luoghi irraggiungibili dalla produzione del rischio, l’interconnessione sistemica rende difficile una completa immunità.
Diventa allora determinante capire a quali condizioni la siccità comporti conseguenze tanto devastanti, costituendo un fattore di pressione su un territorio e un ambiente umani già stressati. Se la siccità e il mutamento climatico si associano a una preesistente vulnerabilità sociale, causata da policies inefficaci e da un abuso del territorio, la risposta può essere affermativa.
Quest’associazione si è infatti verificata nel caso della Siria e si è persino aggravata a causa della sottovalutazione e delle risposte inefficaci date dal sistema. Benché «non affermiamo che la siccità abbia provocato la guerra», spiega uno dei coautori della ricerca, il climatologo della Columbia University Richard Seager, «pensiamo che insieme ad altri fattori scatenanti, la siccità abbia aiutato a spingere gli eventi oltre la soglia di non ritorno, fino a far scoppiare il conflitto. Un’ondata di siccità così grave, inoltre, è stata resa possibile, o molto più probabile, dall’inaridimento della regione provocato dall’attività umana».
La Siria, ha precisato il professor Seager, è stata destabilizzata da 1milione e 500mila migranti provenienti dalle aree rurali, spinti alla fuga dal persistere della siccità, dall’aumento della temperatura media, dal crollo di circa 1/3 della produzione agricola e dal diffondersi rapidissimo di epidemie. Recentemente sono state espresse opinioni contrarie, in particolare in uno studio, Climate change and the Syrian civil war revisited, pubblicato su Political Geography. Ma il dibattito resta aperto.
Nel frattempo, il processo di mutamento climatico prosegue. L’innesco del disordine globale potrebbe già essere avvenuto. Il report della Banca mondiale (che potete leggere nel pdf in calce all’articolo) aiuterà a prenderne atto?
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