di Anna Maria Magrelli
Fonte: Città Nuova
Dopo la sconfitta dei diritti sociali e la crescita della deriva populista, il lavoro, inteso come un diritto, è ormai una chimera. Intervista al professor Marco Revelli, professore ordinario di Scienze politiche presso l’università orientale del Piemonte.
Marco Revelli, uno dei più noti e attenti studiosi del nostro tempo, è stato tra gli interlocutori dell’edizione 2018 di LoppianoLab, che ha avuto come titolo tema “Dal sogno all’impegno”. Il passaggio necessario, cioè, per declinare quella intuizione di cambiare il mondo che 50 anni addietro ha contrassegnato una intera generazione non solo in occidente. Cosa è cambiato in questo lasso di tempo nella nostra società? Da questa domanda iniziale nasce la nostra intervista a Revelli, professore ordinario di Scienze politiche presso l’università orientale del Piemonte.
A mezzo secolo dal ’68 cambiare il mondo rimane una utopia o un progetto ancora valido?
“O cambiamo il mondo, o il mondo cambierà noi”, diceva la mia generazione mezzo secolo fa. Il mondo non l’abbiamo cambiato… Eppure cambiare oggi il mondo sarebbe un obbligo, visto come “va il mondo”. Perché così come è stato “costruito” nel mezzo secolo che ci separa dal ’68 non è solo ingiusto, spaventosamente diseguale, traboccante di disumanità, ma è insostenibile. Destinato non solo a precipitare nella catastrofe per via della guerra, come appunto i ribelli dell’”anno degli studenti” denunciavano, ma a scivolarvi silenziosamente per gli stessi comportamenti degli uomini in tempo di pace. Per la distruzione dell’ambiente, per la desertificazione dei territori, per il cambiamento climatico. Per il dilagare di una forma estrema di egoismo individualistico che ha cancellato l’idea stessa di responsabilità nei confronti del proprio prossimo e delle generazioni future.
Dal jobs act al decreto dignità che rimane del lavoro come diritto? Il reddito di cittadinanza può sostituire il lavoro?
Il lavoro come diritto è rimasta una chimera. Il sogno di una stagione di metà secolo. Quando quel principio fu scritto nella Costituzione e divenne in qualche modo senso comune, si era nel pieno di una grande ondata di conquiste da parte dei lavoratori. Erano state sconfitte le dittature che insieme alle organizzazioni dei lavoratori avevano tentato di cancellarne i diritti, il lavoro concentrato nei grandi stabilimenti aveva potuto misurare la propria forza e farla valere nell’arena politica, là dove si scrivono le leggi impegnative erga omnes. Nelle società il valore del lavoro come principale forma di creazione della ricchezza era riconosciuto. Poi è venuto il grande freddo. Quella che un grande sociologo, Luciano Gallino, ha chiamato la “lotta di classe dopo la lotta di classe”. La riscossa di quei poteri economici che erano stati costretti a cedere un po’ dei propri privilegi e che volevano riprenderseli con gli interessi. Le nuove tecnologie, soprattutto nel campo dei trasporti e delle telecomunicazioni, il passaggio dalla meccanica all’elettronica, i grandi processi di ristrutturazione e di delocalizzazione resi possibili da quelle tecnologie hanno consentito quella che oggi possiamo riconoscere come una sconfitta storica del lavoro. E con il lavoro sono stati sconfitti i diritti (non solo sociali). Il Jobs Act è la formalizzazione di quella sconfitta. Sancisce la riduzione del lavoro ad appendice subalterna dell’impresa. Il primato della figura dell’imprenditore sul dipendente. La precarietà e marginalità del lavoro e dei lavoratori. Il reddito di cittadinanza non restituisce loro quelle prerogative, ma quantomeno permette di evitare il dilagare di forme massificate di povertà e di evitare quei lavori indecenti che altrimenti la mancanza di reddito renderebbe inevitabili.
Cosa è, a suo giudizio, il populismo che sembra invadere l’Europa, Italia compresa?
Il populismo sembra diventata una forma pervasiva della politica. Io dico che è la forma della politica dopo la “fine della politica”, cioè dopo il fallimento di quell’idea di politica che ne faceva l’attività nobile attraverso cui una comunità progetta e decide la forma della propria “società giusta”. Il populismo è il prodotto (e il sintomo) di una malattia (forse terminale) della democrazia, quando questa perde il rapporto con la propria radice, linguistica e concreta, il demos, il popolo. È la vendetta di una parte di popolo che si sente tradita dai propri precedenti rappresentanti, e sceglie la parte più aggressiva, più demagogica, che promette di “fare giustizia” creando nuove vittime sacrificali secondo la logica perversa del “capro espiatorio”.
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