Si è aperto a Pechino, in pompa magna rossa (e un po’ bianca) il 19° congresso PCC, quello che segna il metà mandato del presidentissimo Xi Jinping.
I numeri che può mettere sul tavolo sono impressionanti e unici al mondo: la crescita cinese superiore al 6% annuo (6,8 quest’anno), nonostante tutte le previsioni di un drastico calo, è ancora lì; il debito estero Usa è per una quota ormai del 20% nelle mani delle istituzioni finanziare cinesi; dal punto di vista militare, con spese sempre inferiori a quelle dei “colleghi” russi e statunitensi, cresce in funzione di deterrenza, perché ciò che conta è vendere; l’influenza cinese in continenti come l’Africa e l’America Latina prosegue inarrestabile, seguendo il modello win-win, cioè “vinco io-vinci tu”, ti do un’autostrada o una linea ferroviaria chiavi in mano e in cambio mi dai qualche giacimento da sfruttare; la corruzione in patria cresce ma un po’ meno di prima, le purghe continuano in modo meno cruento di qualche decennio fa, ma sono ancora all’ordine del giorno; i cinesi conquistano squadra dopo squadra il calcio mondiale, vedi quel che succede dalle parti di Milano; in campo religioso cresce la libertà religiosa, ma con giudizio, guai a mescolare politica e fede…
E poi le sfide: la condivisione della ricchezza tra tutti, entro il 2035, superando l’ancora enorme gap che separa la Cina dagli Stati Uniti nel reddito pro-capite (56.084 contro 14.340 dollari, nel 2015); far sì che cresca il ruolo delle donne nel partito (26% degli iscritti, 24% dei delegati al congresso); mettersi alle spalle la stretta demografica e il figlio unico, riprendendo a far figli per combattere l’invecchiamento della popolazione; continuare a proporre un socialismo liberista, smentendo quelli che considerano incompatibili le due teorie economico-politiche; proporre una Cina forte politicamente, resa indispensabile negli scenari internazionali dalla sua potenza senza bisogno di sparare obici e di dispiegare enormi flotte navali; mantenere una Cina ricca culturalmente, ancorata al suo confucianesimo fondante e gelosa delle sue prerogative; non cedere alle sirene del web made in Usa, sviluppando modelli autoctoni; proseguire nella diffusione della lingua cinese nel mondo, ponendo argini all’uso dell’inglese-globish; sostanziare e proteggere la diffusione commerciale con una presenza militare geostrategica; non voler imitare i modelli democratici occidentali, mantenendo la propria autonomia anche nel campo delle dottrine economiche e nella concezione dei diritti umani, così diversa da quella occidentale…
Insomma, Xi Jinping ha presentato la Cina «bella e armoniosa» (di confuciana memoria) che non ha più nulla di Mao e del maoismo, tranne i riti: 203 minuti di discorso non sono poca cosa! Ma sta di fatto che la prima economia mondiale è sempre più prima. In silenzio, senza strepiti, ma il mondo ormai si sveglia ogni giorno un po’ più cinese. Solo l’India, tra qualche decennio, potrà pensare di contrastare Pechino nella sua egemonia, visto che cresce a ritmi superiori a quella cinese (7,6 nel 2016) e che tra 5 anni dovrebbe superare il numero di abitanti cinese (oggi 1.395 milioni per la Cina e 1.335 per l’India secondo l’Onu, ma recenti studi considerano la popolazione cinese solo a 1.329 milioni, cioè già superata da Delhi).
Fonte: Città Nuova
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