di Sara de Simone
L’Uganda è al secondo posto nella classifica mondiale dei paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati. Nel 2018 l’UNHCR calcolava che fossero circa 1,3 milioni, provenienti dai vari paesi della regione, in particolare Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo (RDC) e Burundi, paesi caratterizzati da una forte violenza politica: in Sud Sudan, le violenze sono sfociate in una vera e propria guerra civile dopo l’indipendenza del paese dal Sudan nel 2011; in RDC, da più di un decennio una guerra a bassa intensità interessa le regioni orientali; il Burundi è attraversato da violenze in prossimità di ogni tornata elettorale. Caratterizzati da conflitti con una forte componente etnica, questi tre paesi producono il 95% dei rifugiati attualmente residenti in Uganda, con i sud sudanesi che rappresentano la popolazione più numerosa (il 65% sul totale dei rifugiati).
È stata proprio la guerra civile scoppiata in Sud Sudan nel dicembre del 2013 a far impennare i numeri degli arrivi nel paese, con picchi di 2500 persone al giorno tra luglio 2016 e marzo 2017. Nonostante gli accordi di pace firmati a ottobre 2018, gli scontri sono continuati e, sebbene il flusso di rifugiati si sia decisamente ridimensionato, in pochi tra quelli che avevano già passato il confine hanno scelto di fare rientro in patria.
Anche se nell’immaginario pubblico internazionale l’Uganda evoca ancora scenari di guerra legati ai dittatori del passato, il paese rappresenta oggi un porto (relativamente) sicuro in una regione martoriata dalla guerra. Dal 1986 è governata dal Presidente Yoweri Museveni, che è riuscito a mantenere, talvolta attraverso operazioni anti-insurrezionali piuttosto violente, una sostanziale stabilità, cosa che gli ha permesso di vendere alla comunità internazionale l’immagine dell’Uganda come di un partner affidabile.
La sua stabilità spiega in parte come mai così tante persone in fuga scelgano l’Uganda come destinazione. Esiste, tuttavia, un’altra ragione, almeno altrettanto importante: la politica di accoglienza dei rifugiati del paese è tra le più aperte al mondo, e gode di fama internazionale. I rifugiati in Uganda hanno il diritto di accedere a servizi essenziali, come istruzione e servizi sanitari, su base paritaria con la popolazione locale, di lavorare e intraprendere attività imprenditoriali e di spostarsi sul territorio nazionale[1]. La politica di accoglienza ugandese ruota attorno ai refugee settlements, diversi dai campi perché più aperti e strutturati come veri e propri villaggi, con mercati e servizi. Ai rifugiati viene concesso un appezzamento di terra a scopo abitativo e per l’avvio di attività agricole di sussistenza che, insieme agli aiuti alimentari, sopperiscono al fabbisogno alimentare di ogni famiglia. La maggior parte dei refugee settlements si trova nella regione nord-occidentale del paese, nella provincia del West Nile, dove risiede il 56%dei rifugiati. In alcuni distretti, il loro numero ha addirittura superato la popolazione locale: nei distretti di Adjumani e Moyo, ad esempio, i rifugiati costituiscono rispettivamente il 58% e il 52% della popolazione residente.
Nonostante una crescita del PILche ha raggiunto il 6% nel 2018, l’Uganda resta però tra i paesi che la Banca Mondiale classifica come a basso reddito, e presenta indicatori di sviluppotutt’altro che positivi. A fronte di un incremento demografico annuo del 3,34% su una popolazione di 40 milioni, il reddito pro capite medio è di 657 dollari l’anno, l’aspettativa di vita alla nascita è di appena 62 anni e il tasso di analfabetismo arriva al 24%. In tali circostanze, sarebbe ragionevole aspettarsi resistenze contro le politiche di accoglienza ai rifugiati da parte della popolazione locale, a difesa delle scarse risorse a disposizione. A causa del numero crescente di rifugiati, infatti, la terra, risorsa un tempo abbondante nelle regioni nord-occidentali del paese, ha cominciato a scarseggiare, e le comunità locali che ne detengono la proprietà la concedono con più reticenza al governo per la creazione dei refugee settlements. La crescita demografica repentina ha comportato un aumento della pressione sulle risorse naturali come acqua e legname e un conseguente deterioramento delle condizioni ambientali, problema molto sentito dalle popolazioni locali che vivono principalmente di agricoltura e allevamento. L’insufficienza di infrastrutture igienico-sanitarie ha poi provocato un aumento dell’inquinamento delle acque, causando al contempo epidemie di colera.
Nonostante questi problemi, e nonostante una serie di contrasti legati alla diversità culturale tra rifugiati e locali, il discorso pubblico attorno all’accoglienza ai rifugiati resta fortemente positivo sia a livello nazionale che a livello locale. La ragione è da ricercarsi nella capacità del governo di “capitalizzare” sulla crisi dei rifugiati a proprio vantaggio politico, e a beneficio della popolazione locale nelle aree in cui i rifugiati sono ospitati.
La crisi in Sud Sudan e il conseguente flusso di rifugiati verso l’Uganda ha consentito a Museveni di riconquistare l’attenzione dei donatori internazionali dopo una serie di scandali di corruzione. Tra il 2014 e il 2018 l’UNHCR ha lanciato appelli per un totale di 4 miliardi di dollari per far fronte all’emergenza rifugiati. Anche se erogati solo in minima parte, questi fondi vengono utilizzati dal governo ugandese non soltanto per l’accoglienza diretta ai rifugiati, ma anche per perseguire altri obiettivi. Da una parte, la risposta all’emergenza rifugiati consente il rafforzamento della presenza dello stato in una regione che resta una delle più fragili del paese. La provincia del West Nile è un’area storicamente marginale dell’Uganda, in cui sviluppo economico e infrastrutturale sono stati per molto tempo molto limitati. Ancora oggi, il tasso di alfabetizzazione nella regione è più basso rispetto alla media nazionale mentre è stato calcolato che vi risieda il 71% delle famiglie che vivono in una condizione di povertà cronica. La regione è stata teatro di scontri tra milizie armate ed esercito governativo fino ai primi anni 2000, quando alcuni dei leader locali sono stati cooptati nel sistema di governo centrale. Se la cooptazione di questi personaggi di spicco non ha messo del tutto a tacere le rivendicazioni di una maggiore inclusione nella spartizione delle risorse a livello nazionale, l’aver reso la zona il centro nevralgico delle operazioni legate all’accoglienza dei rifugiati ha però dato in qualche modo una risposta più concreta a queste rivendicazioni.
L’apertura di refugee settlements nella regione risponde infatti non solo ad una logica geografica, legata alla prossimità al confine con il Sud Sudan e la RDC, ma anche ad una logica di sviluppo, che mira ad attrarre risorse esterne nella regione. Gli aiuti umanitari destinati all’Uganda per la gestione dell’emergenza rifugiati non sono soltanto aiuti alimentari, ma anche, in buona parte, investimenti per infrastrutture e servizi di base. La presenza dei rifugiati, spesso addirittura richiesta dalle comunità locali, porta quindi con sé la costruzione di scuole, ospedali, centri per la formazione, pozzi, strade, mercati, veicolando un sostanziale miglioramento per tutta la popolazione residente nella zona. Consapevole di quanto sia importante che le comunità locali traggano beneficio dalla presenza dei rifugiati per mantenere alto il consenso, il governo è arrivato ad introdurre clausole che quantificano le percentuali di aiuti che possono essere diretti ai rifugiati e quelle che devono essere dirette alla popolazione locale: 70% ai rifugiati e 30% alle comunità locali, che in un’ottica di lungo periodo tenderà a diventare 50%-50%. Inoltre, la libertà di movimento e la possibilità di lavorare e fare affari accordata ai rifugiati fanno sì che in ogni insediamento si sviluppino nuovi mercati e opportunità imprenditoriali sia per le comunità locali che per i rifugiati, cosa che dà impulso a una crescita economica a livello locale. Tutta la politica ugandese dei settlements si fonda infatti sul concetto di self-reliance, autosufficienza: i rifugiati devono diventare il più possibile economicamente autonomi, in modo da non pesare eccessivamente sul sistema di accoglienza e contribuire all’economia ugandese.
Questo modello è stato messo sotto pressione dai numeri molto elevati di persone in cerca di rifugio giunte nel paese negli ultimi due anni. Resta, tuttavia, un’esperienza interessante e unica in Africa Orientale, che dimostra ai governi della regione e del mondo come una politica di accoglienza aperta possa portare anche dei benefici.
Sara De Simone
Università di Trento
[1] In teoria, servono permessi rilasciati dalle autorità competenti, ma lo spostamento libero di persone sul territorio ugandese, in particolare dai campi alle città, è una prassi consolidata e riconosciuta anche dalle autorità locali.
Scrivi un commento