18 Maggio 2018 di Vittorio Pelligra
pubblicato sul Sole24ore il 18/05/2018
La filosofia della guerra atomica è il titolo di un libro di Herman Kahn, il “Clausewitz dell’era atomica”, pubblicato in Italia nel 1966. Nel libro, Kahn propone e argomenta la dottrina dell’attacco preventivo, secondo cui l’unico comportamento razionale davanti alla minaccia nucleare dell’Unione Sovietica doveva essere, per gli Stati Uniti, quello di attaccare per primi. «La nostra vulnerabilità ad un attacco Sovietico – scrive Kahn – rappresenta, allo stesso tempo, una tentazione per i russi ad attaccarci per primi, ma anche una necessità, perché altrimenti, potrebbero pensare, saremmo noi americani ad attaccare per primi».
Kahn non era il solo in quegli anni a pensarla così, anche John von Neumann, il grande matematico e fisico, l’inventore dei moderni computer, consulente di varie agenzie governative e militari in tema di armi nucleari, la pensava allo stesso modo, e con lui molti altri. Il ragionamento che sosteneva la necessità di un attacco preventivo si basa sull’analisi di uno scenario chiamato dagli esperti di strategia, chicken game (il gioco del pollo).
L’idea è quella alla base di una famosa scena del film Gioventù bruciata, nella quale un giovane James Dean sfida un altro ragazzo in una gara di coraggio: si lanciano due macchine a tutta velocità verso il bordo di una scogliera fin quando uno dei due frena. Quello che frena per primo perde, fa la figura del “pollo”, appunto, e l’altro invece vince, risultando il più coraggioso e guadagnandosi l’ammirazione dei ragazzi e, soprattutto, delle ragazze presenti.
Schematizzando quindi, se uno frena per primo, perde; se frena per secondo vince; se entrambi frenano, nessuno vince, ma nessuno perde. Se, invece, nessuno frena, perdono, e molto, entrambi. L’analisi di questo scenario divenne particolarmente popolare durante gli anni della guerra fredda perché spiegava bene la logica del confronto tra le due superpotenze nucleari. Se gli USA attaccano, l’URSS non ha razionalmente ragione di contrattaccare; in fondo una sola città distrutta dall’attacco USA è meglio delle dieci o venti città che verrebbero distrutte dai missili che gli americani lancerebbero a seguito di un contrattacco russo. Lo stesso discorso vale, simmetricamente se i primi ad attaccare fossero i russi. Se nessuno attaccasse, certo nessuno perderebbe, ma, allo stesso tempo, nessuno vincerebbe. Se invece tutti attaccassero allora si verificherebbe quella che allora veniva definita “MAD” (mutual assured destruction), cioè, l’apocalisse nucleare. Se questo è lo scenario, si chiedevano in quegli anni gli strateghi militari, qual è la soluzione migliore, la condotta più razionale? Attaccare per primi, è la risposta. Questo il fondamento della dottrina dell’attacco preventivo. Se non attacco io per primo, attaccheranno gli altri e allora sarà troppo tardi, ergo, dobbiamo attaccare per primi.
È la stessa logica espressa nel famoso “lungo telegramma” che George Kennan, inviò negli Stati Uniti dopo aver ascoltato il discorso di Stalin al Bolshoi nel 1947. Scriveva Kennan, a proposito della natura intrinsecamente espansionistica del comunismo sovietico: «Se non prendiamo noi quei territori, lo farà qualcun altro. E questo sarà ancora peggio». Mutatis mutandis, quella stessa logica, la ritroviamo oggi nell’ambito del conflitto siriano, dove USA e Russia si contendono l’influenza e il controllo su quella regione così nevralgica dal punto di vista economico e geopolitico. Se non “conquistiamo” noi per primi la Siria, lo faranno gli altri, e questo sarà ancora peggio – sostengono entrambi i contendenti – quindi, muoviamo per primi. Ma muovere contemporaneamente, come abbiamo visto nel gioco del pollo, porta entrambi gli sfidanti a precipitare dalla scogliera. Naturalmente la situazione concreta è molto più sfumata e complessa, ma al fondo non tanto diversa. Con il recente attacco missilistico di Trump, May e Macron, i contendenti sui due fronti hanno, nelle parole del vicario apostolico di Aleppo, Georges Abou Khazen: «Finalmente gettato la maschera (…) Prima era una guerra per procura. Ora a combattere sono gli attori principali (…) ora che gli attori minori sono stati sconfitti, in campo sono scesi i veri protagonisti del conflitto». Cosa succederà? Chi scatenerà per primo l’attacco decisivo?
Seguire il parallelo con ciò che accadde durante la Guerra Fredda ci può aiutare anche oggi a comprendere e suggerire la possibilità di scenari alternativi. Se in quegli anni, infatti, la cosa migliore da fare, sia per USA che per URSS, fosse realmente stata quella di attaccare, perché alla fine, per nostra fortuna, nessuno lo fece, e abbiamo così potuto sperimentare, sia pure sotto il “delicato equilibrio del terrore”, sessant’anni di pace?
In quegli anni molti erano a favore dell’attacco preventivo, ma non tutti. Uno dei suoi più autorevoli critici fu il premio Nobel, Thomas Schelling, economista e teorico dei giochi dell’Università di Harvard. Da una parte, Kahn e von Neumann si affidavano alla logica cieca della pura razionalità che aveva facile presa sui militari – «Se alla fine di tutto sono rimasti due americani e un russo, allora abbiamo vinto noi» – disse una volta Thomas Power, capo del Comando Aereo Strategico – dall’altra Schelling faceva leva sulla forza dell’umanità e della ragionevolezza contrapporta alla razionalità. La posizione caldeggiata da Schelling era quella della “deterrenza”, secondo cui gli attacchi vanno scoraggiati, non anticipati, perché in fondo, anche se vinci con un attacco preventivo avrai comunque fatto milioni di vittime e creato una situazione in cui i vivi invidieranno i morti. La guerra non è una matrice di numeri su una lavagna, sono persone, donne, bambini, futuri spezzati e storie interrotte; non c’è nessun orgoglio intellettuale nel trovare una soluzione strategica, per quanto elegante e razionale che preveda morte e distruzione su scala planetaria.
Alla fine l’opzione di Schelling prevalse e oggi possiamo affermare, come fece lui alla cerimonia di consegna del Nobel, che «il più spettacolare evento del mezzo secolo appena trascorso è stato proprio ciò che non è avvenuto»: lo scoppio di una guerra nucleare globale. Paradossalmente la strategia vincente proposta da Schelling fa affidamento sul comportamento non razionale, ma molto umano del nemico, il quale, a sua volta, ritiene il suo nemico non razionale. Solo in questo modo può essere sconfitta la stringente logica dell’attacco preventivo. Schelling riuscì a convincere i pochi, ma influenti lettori dei suoi libri, che oltre la cortina di ferro c’erano uomini in carne ed ossa, con sentimenti, passioni, paure, emozioni, idiosincrasie, disposti a seguire norme sociali e a non infrangere tabù, e non, piuttosto, i freddi calcolatori razionali di cui si occupa la teoria dei giochi. In questo modo li persuase che la strategia vincente avrebbe dovuto prevedere un “abile non-utilizzo della forza militare”.
Per uscire dal chicken game che rappresenta oggi la crisi siriana, avremmo bisogno certamente di più Schelling e meno von Neumann, che ci ricordino il valore vero di una vita umana, di come le guerre siano tra le principali cause della sofferenza dell’umanità, che un livello minimo di cooperazione rappresenta il prerequisito irrinunciabile di ogni società prospera, perché nello stato di natura, dove regna la guerra di tutti contro tutti, la vita è, citando Hobbes, «solitaria, povera, feroce, brutale e corta».
Fonte: www.edc-online.org
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