Foto: ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO
Continuiamo la ricognizione sulle culture politiche presenti e attive nel nostro Paese. Dopo il cattolicesimo democratico e la destra liberale, è ora il tempo della sinistra
La nascita del socialismo e la critica al processo di sviluppo italiano
Per parlare di una tradizione riformista in Italia, collocata sul versante “sinistro” rispetto alla classe dirigente tradizionale, solitamente si risale ai primi deputati che entrarono in Parlamento tra le fila del Partito socialista, nato a Genova da Turati e Kuliscioff nel 1892, affermatosi come partito di massa a trazione marxista, schierato in difesa delle rivendicazioni del Movimento operaio.
La grande novità politica, considerata con preoccupazione da una gerarchia ecclesiastica intimorita dal possibile proliferare del materialismo storico, aveva davanti a sé uno scenario variegato e frastagliato di malcontento sia in fabbrica che nelle campagne, ma non seppe cavalcarlo né unificarlo, piuttosto lo subì, come in occasione del “biennio rosso” successivo al primo conflitto mondiale, all’apice del quale fu operata la prima e fondamentale scissione storica all’interno della famiglia socialista: lo strappo di Livorno del gennaio 1921, con la fondazione del Partito comunista.
La Rivoluzione russa, nel frattempo, aveva rappresentato l’affermazione della dottrina socialista all’interno dell’area geo-politica più arretrata e meno industrializzata del continente (revisione parziale dell’idea guida contenuta nel pensiero di Marx), ma soprattutto aveva palesato quali strumenti fossero considerati fondamentali in vista del consolidamento del potere politico: a) il partito quale avanguardia rivoluzionaria indispensabile per guidare le masse; b) i soviet come organismo di conduzione del rinnovamento da operare nei gangli vitali dell’amministrazione statale e della macchina economica; c) una classe intellettuale fortemente ingaggiata nel processo di revisione storica e di gestazione del nuovo paradigma. Gramsci, in Italia, divenne il simbolo della consapevolezza critica verso i processi istituzionali, con i suoi studi sull’unificazione come rivoluzione fallita, che denunciava il dirigismo dell’élite, il mancato coinvolgimento delle masse contadine e l’occupazione meridionale.
L’antifascismo e la lotta resistenziale
La tradizione politica di sinistra si affermò a cavallo tra il gradualismo della socialdemocrazia tedesca, convinta che la conquista del potere politico potesse avvenire per via parlamentare, e il massimalismo di marca sovietica, che ben presto divenne l’immagine dell’ascesa prepotente dello Stato socialista, la cui affermazione nel cuore delle contraddizioni del sistema capitalista era considerata ormai prossima.
Ma la crisi economica del 1929, unita all’impermeabilità del sistema democratico-liberale occidentale, aprì piuttosto alla risposta forte dei totalitarismi, che costrinsero l’orizzonte social-comunista alla clandestinità e all’esilio forzato, con il proposito di preparare il bagaglio culturale adatto alla ripresa di un progetto riformista, che avrebbe avuto nell’antifascismo uno dei tratti dominanti.
La lotta resistenziale, combattuta all’indomani dell’8 settembre 1943 (annuncio dell’armistizio con le forze alleate), rappresentò la battaglia concreta e dottrinale di quanti avvertirono l’urgenza di generare una comunità politica che avesse cooperato alla riconquista della libertà (le Brigate partigiane), al recupero del dialogo politico interpartitico (l’esperienza dei CLN, Comitati di liberazione nazionale), alla scrittura della carta d’identità del Paese e delle regole della convivenza plurale e democratica (il biennio dell’Assemblea costituente).
Forze di lotta o di governo?
Socialisti e comunisti composero, assieme alla DC degasperiana, la maggioranza tripartita che diede continuità al processo di ricostruzione e consolidamento del Paese, almeno fino al 1947, quando esplosero i primi segnali della guerra fredda già in atto ed emersero le molteplici contraddizioni interne di un accordo del tutto provvisorio: la nascita del Partito socialdemocratico (scissione di Palazzo Barberini), con la componente riformista che lasciò il PSI in polemica per il rinnovo della politica frontista con i comunisti; la politica dei “due forni” portata avanti dal PCI, che contestava nelle piazze e nei luoghi rappresentativi l’esecutivo di cui doveva essere un sostegno imprescindibile; la scelta filo-occidentale della DC, che accettando gli aiuti economici del piano Marshall entrava a pieno diritto nel novero delle forze che dovevano garantire la dottrina del containment in funzione anticomunista.
La campagna elettorale per le elezioni politiche del 1948, quella del definitivo sostegno vaticano al disegno centrista e quella del dilemma a senso unico: De Gasperi o Togliatti, non fece altro che confermare l’uscita della sinistra politica dal governo e l’inizio di un ruolo di opposizione che durò quasi cinquant’anni.
Non mancarono importanti deroghe. Prima di tutto le giunte di centro-sinistra, che governarono alcune tra le principali città capoluogo nel cuore degli anni ’60, testimoniando l’esistenza per nulla teorica di un progetto riformatore più ampio che doveva sostenere il boom economico. Quindi la stagione del compromesso storico, l’avvicinamento tra Moro e Berlinguer, che aveva lo scopo di realizzare un programma di rinnovamento della società basato sul consenso di massa assegnato alle forze contraenti, che fu rallentato dalle spinte conservatrici e dalla debolezza dei governi di solidarietà nazionale, i quali non seppero resistere alla violenza fisica e verbale che seguì al sequestro e all’omicidio dello statista democristiano (maggio 1978) da parte delle Brigate Rosse. Infine il governo Craxi del 1983-1987, con la formula del “pentapartito” che comprendeva i socialisti ma non il PCI, e che sembrò anticipare, almeno in parte, il definitivo crollo del “comunismo di governo”, di lì a poco sanzionato dalla caduta del muro di Berlino.
Affermazione del riformismo o permanente “sindrome dell’opposizione”?
Una spinta riformista a sinistra non si esaurì neppure con la scomparsa dei partiti storici, principali attori della prima stagione repubblicana, che mutarono nome (PCI-PDS-DS; il PSI divenne forza marginale, al netto del permanere dell’idea politica portante in vari schieramenti) e cercarono una nuova legittimazione in rinnovate ipotesi di governo.
La stagione ulivista di Prodi, con l’ingresso italiano in zona euro e il protagonismo all’interno del progetto di unificazione continentale, cominciò ad avvicinare i “nemici storici”, gli stessi eredi del cattolicesimo democratico e della sinistra progressista che unirono le proprie strade nella creazione del Partito democratico.
La continuità di una classe dirigente omogenea, il coinvolgimento del cittadino-elettore tentato dal disimpegno e dalla crescente ondata di anti-politica, la capacità di resistere alla tentazione del capo o dell’uomo forte per continuare ad esprimere una dottrina che nasca dalla pluralità delle provenienze e dal dialogo allargato, rimangono sfide aperte e irrisolte di una storia che spesso appare non abbandonare la “sindrome dell’opposizione”.
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Per un quadro completo leggi anche dello stesso autore:
La “diaspora” dei cattolici democratici
Consigli per la lettura
Guido Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Il Mulino, Bologna, 2016
Carlo Guarnieri, Il sistema politico italiano. Radiografia politica di un paese e delle sue crisi, Il Mulino, Bologna, 2016
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