di Giulio Albanese
In Burkina Faso, dopo 27 anni di regime ininterrotto di Blaise Compaoré, la popolazione ha deciso di cacciarlo via. Parte forse da qui la tanto agognata svolta africana? Un commento
Il Burkina Faso, magico nome che nelle lingue more e bamanankan significa “la terra degli uomini integri”, è un Paese che potrebbe davvero segnare la tanto agognata svolta africana. Nessuno dispone di una sfera di cristallo per leggere il futuro, ma certamente, quanto è avvenuto tra la fine di ottobre e i primi di novembre, nell’ex colonia francese, non andrebbe sottovalutato, almeno per quanto concerne la sollevazione del popolo burkinabé contro uno dei personaggi più inquietanti dell’epoca postcoloniale: Blaise Compaoré.
Despota sanguinario, fu proprio lui ad uccidere il suo predecessore, il mitico Thomas Sankara, il 15 ottobre del 1987, senza interventi decisivi da parte del presidente francese, François Mitterrand per bloccare l’esecuzione. La dissoluzione del regime di Compaoré, allora, non può essere banalizzata quasi fosse stato il solito golpe africano ordito dai militari di turno. Si tratta, piuttosto di un evento senza precedenti nel contesto della geopolitica dell’Africa Subsahariana. Anzitutto perché, rispetto a quanto accaduto in altri Paesi della regione, è stata la gente a invocare a squarciagola le sue dimissioni. Sebbene il colpo di grazia al regime sia stato inferto dai militari che in fretta e furia hanno allestito una giunta, i manifestanti sono scesi in piazza, gridando: “Compaorè è come l’Ebola”, “Compaoré è Giuda Iscariota”, nella consapevolezza che ormai la misura fosse colma.
Per comprendere, comunque, la valenza di questo ribaltone burkinabé, è importante soffermarsi sulla dinamica dei fatti. La scintilla che, per così dire, ha acceso il falò, è stato l’annuncio di una riforma costituzionale per consentire a Compaoré di prolungare ulteriormente il suo mandato, dopo 27 anni di potere assoluto. Massone del Grande Oriente di Francia (Godf) – la stessa loggia a cui apparteneva Mitterrand e che gli consentì di affermarsi a livello internazionale -, Compaoré ha tentato fino all’ultimo di rimanere in sella al potere, dicendosi disposto, di fronte al crescente malessere popolare, a rinunciare al progetto di riforma costituzionale, in cambio di un prolungamento del suo mandato. Ma la proposta ha fatto infuriare ancora di più la popolazione ridotta allo stremo da una politica economica incentrata sull’esclusione sociale.
Sta di fatto che, mentre scriviamo, il Paese è ancora nelle mani di una giunta militare che, a seguito delle forti pressioni internazionali, si è impegnata a consegnare il potere ai civili entro due settimane, a partire dal 3 novembre. Naturalmente, la prudenza è d’obbligo, non foss’altro perché bisognerà vedere fino a che punto la giunta di cui sopra sarà in grado di creare le condizioni per un passaggio dei poteri ai civili, nel rispetto delle prerogative di uno stato davvero democratico.
Da rilevare, comunque, che Compaoré si sta già godendo il suo esilio dorato a Yamoussoukro, in Costa D’Avorio, nella residenza a cinque stelle di un despota a lui simile, il presidente Alassane Ouattara. Qui è stato accolto con tutti gli onori, accompagnato da uno stuolo di familiari e collaboratori. A questo proposito sarebbe davvero auspicabile che la Corte penale internazionale dell’Aja prendesse in seria considerazione la possibilità di processarlo per i crimini perpetrati in questi anni di potere dispotico.
Il tema è delicatissimo perché crea non poco imbarazzo alle autorità francesi, soprattutto considerando che Compaoré è stato uno dei presidenti africani che ha rappresentato più di altri gli interessi della cosiddetta “Françafrique con il grembiule”. Come era prevedibile, l’uscita di scena di Compaoré preoccupa non poco le diplomazie occidentali – Stati Uniti e Francia in particolare -, in quanto il suo governo costituiva una sorta di baluardo contro il fenomeno del jihadismo che ha interessato vasti settori della fascia saheliana, soprattutto dopo la caduta del regime di Muammar Gheddafi.
Una cosa è certa: se questo agognato cambiamento dovesse verificarsi in Burkina Faso – cosa che francamente la società civile burkinabé davvero meriterebbe -, esso costituirebbe un precedente nella storia moderna africana. Infatti, rappresenterebbe, alla prova dei fatti, un monito per tutti quei dinosauri della politica che da decenni dominano la scena continentale, dall’ugandese Yoweri Museveni al camerunese Paul Biya, per non parlare dell’inossidabile presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe. C’è da augurarsi, col cuore e con la mente, che il popolo burkinabé sappia interpretare al meglio il sogno del compianto Sankara: “Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio d’inventare l’avvenire. Noi dobbiamo osare d’inventare l’avvenire. Tutto quello che viene dall’immaginazione dell’uomo è per l’uomo realizzabile”.
fonte: Città Nuova
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