Nel settantennio della Dichiarazione universale
Il settantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo propone ancora una volta il dibattito sull’autorevolezza di questo strumento, che rimane uno dei cardini del diritto internazionale contemporaneo. Di fatto, la Dichiarazione è essenziale per la vita degli stati nelle loro varie componenti e per la comunità delle nazioni nel suo complesso. Ma risponde efficacemente alle attuali visioni e necessità delle relazioni internazionali? Può ancora essere considerato come un «ideale comune che deve essere raggiunto da tutti i popoli e le nazioni», come affermato nel suo preambolo?
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è «il risultato di una convergenza di tradizioni religiose e culturali, tutte motivate dal comune desiderio di porre la persona umana al cuore delle istituzioni, leggi e interventi della società, e di considerare la persona umana essenziale per il mondo della cultura, della religione e della scienza» (Benedetto XVI, discorso all’Onu, 18 aprile 2008). Nei suoi contenuti la Dichiarazione rientra in quella visione antropocentrica anche dei rapporti internazionali prospettata da Giovanni Paolo II: «Questo documento è una pietra miliare posta sul lungo e difficile cammino del genere umano. Bisogna misurare il progresso dell’umanità non solo col progresso della scienza e della tecnica, dal quale risalta tutta la singolarità dell’uomo nei confronti della natura, ma contemporaneamente e ancor più col primato dei valori spirituali e col progresso della vita morale» ( Discorso all’Onu, 2 ottobre 1979). Rivolgendosi al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, lo scorso 8 gennaio, Papa Francesco ne ha indicato la consonanza con la visione cristiana: «Da una prospettiva cristiana vi è dunque una significativa relazione fra il messaggio evangelico e il riconoscimento dei diritti umani, nello spirito degli estensori della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo». Inoltre, ne ha confermato il fondamento: «Tali diritti traggono il loro presupposto dalla natura che oggettivamente accomuna il genere umano. Essi sono stati enunciati per rimuovere i muri di separazione che dividono la famiglia umana e favorire quello che la dottrina sociale della Chiesa chiama sviluppo umano integrale». E infine ha messo in guardia da un rischio: «una visione riduttiva della persona umana apre invece la strada alla diffusione dell’ingiustizia, dell’ineguaglianza sociale e della corruzione» ( Discorso al corpo diplomatico, 8 gennaio 2018).
La Dichiarazione universale non è stata pensata come un semplice catalogo di diritti o una proclamazione solenne (così René Cassin) ma come uno strumento per affermare il primato della libertà contro l’oppressione, dell’unità della famiglia umana rispetto alle divisioni ideologiche e politiche, come pure alle differenze di razza, di sesso, di lingua e di religione. Si voleva difendere la persona dall’idolatria dello stato, allora contro i totalitarismi, partendo da una convinzione condivisa: «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia, della pace» (Dichiarazione universale, preambolo).
Trascorsi settant’anni, questo approccio è ancora valido? Forse in relazione al principio di uguaglianza, anche se oggi l’uguaglianza nel contesto dei diritti umani significa quasi esclusivamente empowerment e non discriminazione! Ma è diverso anche il concetto di libertà (tutto può essere fatto … Quali sono i limiti della libertà?) come pure differente è il concetto di giustizia: nel linguaggio dei diritti umani la giustizia è la giustiziabilità, cioè l’implementazione dei diritti attraverso ricorsi giudiziari e procedure.
Inoltre, con la Dichiarazione si volevano superare le vittime dei crimini contro l’umanità, gli orrori della guerra, gli atti di genocidio per un futuro degno dell’uomo, esaltando il primato della vita, la libertà, l’appartenenza alla famiglia umana. Anche un’idea di giustizia che si realizza mediante la socialità e il metodo democratico (art. 28) inteso non solo come teoria politica, ma quale insieme di regole, istituzioni e strutture in grado di esprimere e veicolare valori, quelli maturati nella coscienza comune dei popoli. La «coscienza dell’umanità», come afferma la Dichiarazione nel suo preambolo.
Oggi questo automatismo non è più valido, ma lascia spazio al cosiddetto approccio trasversale (cross-cutting approach) che separa i diritti dai valori. La vita, per esempio, prima di essere un diritto è un valore; se è considerata solo un diritto ognuno può trovare il modo per garantire la vita nel modo che ritiene conforme alla sua visione o ideologia (questo è il presupposto dei §§ 9 e 10 del progetto di General Comment sul diritto alla vita del Iccpr, il Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici, che introduce come parte del diritto alla vita l’aborto e l’eutanasia).
Credo che ci troviamo nella stessa situazione verificatasi nel marzo 1994, quando l’Iccpr ha esaminato la comunicazione individuale Toonen vs. Australia. In quell’occasione, il Comitato riteneva che la distinzione e la discriminazione per sesso dovevano essere sostituite dal gender, aprendo la strada a qualsiasi possibile formulazione di diritti, doveri e comportamenti basati sulla posizione che il profilo sociale ( gender) fosse superiore a qualsiasi distinzione biologica (sesso). Oggi, la stessa cosa sta succedendo con il diritto alla vita che non viene più considerato come fondato sul valore della vita, ma come un diritto semplice, come molti altri.
La visione della Chiesa sui diritti umani ha sottolineato l’importanza del principio di universalità in modo singolare: è l’universalità della persona che conferisce ai diritti umani la caratteristica dell’universalità. Per Papa Francesco, l’universalità è essenziale per evitare che: «in nome degli stessi diritti umani, si vengano ad instaurare moderne forme di colonizzazione ideologica dei più forti e dei più ricchi a danno dei più poveri e dei più deboli. In pari tempo, è bene tenere presente che le tradizioni dei singoli popoli non possono essere invocate come un pretesto per tralasciare il doveroso rispetto dei diritti fondamentali enunciati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo» ( Discorso al corpo diplomatico, 2018). Questa è la posizione proposta dalla Santa Sede nel contesto della fase preparatoria, tenutasi a Ginevra, della Conferenza di Vienna sui diritti umani del 1993. Una posizione inserita nel § 5 della Dichiarazione finale di Vienna, nota come la cosiddetta clausola culturale: «Tutti i diritti umani sono universali, indivisibili, interdipendenti e interconnessi. La comunità internazionale ha il dovere di trattare i diritti umani in modo globale e in maniera corretta ed equa, ponendoli tutti su un piano di parità e valorizzandoli allo stesso modo. Benché debba essere tenuto presente il valore delle particolari e differenziate condizioni storiche, culturali e religiose, è obbligo degli Stati, tenendo conto dei propri sistemi politici, economici e culturali, promuovere e tutelare tutti i diritti umani e le libertà fondamentali».
Questo è importante anche per l’elaborazione o per i meccanismi di vigilanza e controllo sulla protezione. Infatti, l’azione delle diverse istituzioni intergovernative di fronte alle nuove sfide, coniuga ogni attività/situazione/programmazione alla promozione dei diritti umani, ma utilizzando un approccio trasversale che ha di fatto abbandonato il riferimento alle classiche categorie di diritti — declinati in civili e politici o economici, sociali e culturali — come pure ai consolidati principi di universalità, indivisibilità, interdipendenza e inter-relazionalità chiamati a regolarne l’implementazione. Quella della trasversalità, affacciatasi come tendenza, è ormai una metodologia presente nell’attuale agenda internazionale, in particolare delle Nazioni Unite, che integra i diritti all’interno delle singole tematiche.
Ma quanto pesa sulla mancata tutela dei diritti umani la frammentazione dell’unità della persona? Intorno a tale frammentazione si pensa di proclamare diritti diversi, nuovi diritti, come modo di costruire ampi spazi di libertà che però rimangono privi di ogni necessaria efficacia. Cosa è rimasto ad esempio della proclamazione del diritto alla pace avvenuta nel 2016 ?
Nella visione della Chiesa la tutela della persona umana richiede di riconoscere la sussidiarietà quale principio regolatore dell’ordine sociale. Questo domanda di operare avendo chiaro che dalla dignità della persona nascono diritti e libertà individuali come pure quelli legati alla dimensione comunitaria come la libertà di associarsi, di dar vita alle formazioni sociali, agli enti intermedi, fino alla realtà dello stato e quindi alla comunità internazionale con le sue istituzioni. La dimensione collettiva dei diritti umani è oggi un dato acquisito. Non così nella preparazione della Conferenza di Vienna del 1993: la Santa Sede propose quello che è l’attuale § 2 del preambolo della Dichiarazione finale: «Riconoscendo e affermando che tutti i diritti umani derivano dalla dignità e dal valore inerente della persona umana e che la persona umana è il soggetto centrale dei diritti umani e delle libertà fondamentali», ma aggiungendo: «nella sua dimensione individuale e collettiva».
Ebbene, su quest’ultima parte venne meno il consensus di alcuni paesi occidentali preoccupati del termine «collettivo». Venne rifiutata anche la mediazione di alcuni paesi asiatici, del gruppo africano (basata sulla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli in cui emerge la dimensione collettiva e strutturale) e della presidenza che proponevano di sostituire «collettiva» con «sociale».
Eppure si trattava di un approccio contenuto nella Dichiarazione universale, che in nome della esistenza dignitosa unisce le libertà civili e politiche con la vocazione sociale propria dell’essere umano: l’alimentazione e le cure mediche, l’educazione e l’istruzione, il lavoro e la sicurezza sociale, il riposo e la vita familiare (cfr. art. 25).
Inoltre, domanda di operare quando i diritti fondamentali sono minacciati: il diritto alla vita ad esempio domanda un impegno concreto che giunga a una protezione della persona in tutte le fasi dell’esistenza. Cosa impedisce questo: la mancanza di una cultura della vita. Restano certamente aperte nel dibattito scientifico, e non possono essere ignorate, le questioni legate all’inizio vita o al fine vita. Aspetti con cui i diritti debbono confrontarsi, ma attraverso il criterio guida della dignità e non della funzionalità. Su questo punto il dibattito sarà sempre più ampio nei prossimi anni e ogni strategia di contrasto a nuove teorie deve essere elaborata coniugando il piano etico, i principi morali e le conquiste della scienza, evitando ogni improvvisazione.
Quale riflesso di strutture economiche non basate sul valore centrale della persona, i basilari diritti socio-economici sembrano dipendere da anonimi meccanismi senza controllo. Questo alimenta una visione pragmatica dei diritti, dimenticando la dignità come fondamento.
Produrre una cultura dei diritti sociali significa spiegare che la causa del diniego dei diritti non sono solo le modificate strutture economiche, ma piuttosto un abbandono della visione della persona che da soggetto è diventata sempre più un oggetto dell’agire economico, spesso ridotta a rivendicare i soli diritti legati alla sua funzione di stakeholder o di consumatore e non di persona. Per la Chiesa questo impegno risale almeno alla sistematica dottrina della Rerum novarum (1891), per poi trovare concretizzazione nella partecipazione della Santa Sede alla Associazione internazionale per la protezione legale dei lavoratori e, dopo il 1919, nella presenza nel Bureau international du travail e poi nel sostegno all’Organizzazione internazionale del lavoro.
Come difendere i diritti fondamentali? Distinguendoli da semplici e spesso limitati bisogni che li rendono privi della necessaria efficacia. Poter ricondurre all’originaria impostazione della Dichiarazione anche le nuove situazioni è possibile e può essere una strada da seguire. Che i diritti possano seguire un iter evolutivo è normale, diverso è privarli del loro fondamento e legarli alla moda del momento introducendo una visione parziale o ideologica su cui arbitrariamente costruire nuovi diritti senza precisarne il contenuto e la coerenza giuridica. È necessario continuare a parlare di diritti senza abbandonare il loro fondamento etico e i principi di ordine morale presenti nei rapporti sociali, dalla dimensione interpersonale sino alle relazioni internazionali. Saremo considerati “fuori moda” rispetto al modello dominante, ma questo è parte del nostro impegno.
E bisogna essere consapevoli che i diritti non possono essere dei contenitori che secondo i momenti storici, culturali e politici si riempiono di significati e di elementi diversi. Anzi è l’assenza di valori a cui legare i diritti la causa principale della loro inefficacia e della loro violazione.
Solo una visione debole dei diritti umani può ritenere che l’essere umano sia la risultante dei suoi diritti. Questa lettura, infatti, non riconosce che i diritti restano uno strumento creato dall’uomo per dare piena realizzazione alla sua dignità innata. La Dichiarazione universale, infatti, può servire a difendere la libertà e le sue regole, ma anche a impedire che esse possano degenerare nella negazione del primato dell’essere umano (vedasi intelligenza artificiale e neuroscienze).
Per un’organizzazione non governativa l’approccio ai diritti non può essere generalista. Ogni organizzazione deve concertarsi sullo specifico delle proprie finalità e possibilità. È necessario far crescere le competenze in modo sempre più specifico e interdisciplinare: ad esempio il legame con il mondo della scienza e della ricerca. A essere comune resta il fondamento dei diritti e l’universalità del soggetto: dignità umana e persona.
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