Di Michele Zanzucchi
Fonte: Città Nuova
Noi italiani non abbiamo grande dimestichezza coi deserti. Luoghi di difficile decifrazione e di facili smarrimenti. Di colpi di sole e di improvvisi miraggi. Non c’è da scherzare, inviare soldati italiani nel deserto è una vecchia tentazione della nostra politica, sapendo che nessun tentativo è mai andato a buon fine: si pensi a Libia, Somalia, Etiopia, Eritrea e anche all’Afghanistan.
Per combattere nel deserto bisogna saperlo fare: se gli stessi francesi, gelosissimi delle loro prerogative nel deserto sahariano ex-coloniale e a suo modo francofono, hanno chiesto aiuto ai partner europei – italiani e spagnoli in testa – vuol dire che la battaglia è durissima. Anzi, si tratta di una doppia battaglia: la prima, quella ufficiale, contro le varie milizie qaediste o legate al Daesh, in ogni caso risolutamente anti-occidentali (e questa è una vera guerra militare); la seconda contro i trafficanti di morte che tracciano e seguono le rotte delle migrazioni dall’Africa subsahariana verso Libia e Italia.
Su tutto ciò, senza mettere in dubbio la preparazione dei nostri soldati – che sono bravissimi soprattutto nel non far fare la guerra agli altri, come posso vedere ad esempio qui da vicino, nel Sud del Libano ancora tranquillo dopo più di dieci anni di intermediazione –, qualche dubbio può essere avanzato sulla reale capacità del nostro esercito di sfidare terroristi e temperie meteorologiche.
Altra questione è quella politica. È più che evidente – al di là delle parole di prammatica della politica nostrana – come la prima ragione dell’intervento in Niger sia la questione migratoria. L’Italia dal 2001 non ha voluto o non ha potuto tirarsi indietro nella guerra contro il terrorismo internazionale (sulla cui bontà ed efficacia ci sarebbe molto da dire), ma lo ha sempre fatto in modo direi silenzioso, sotterraneo, mascherato, partecipando a coalizioni solitamente guidate dall’Onu, o in seconda battuta dalla Nato, per non esporre il fianco, come hanno fatto altri Paesi europei, Francia in testa, alle rappresaglie dei terroristi.
Che ora, improvvisamente, il governo italiano avverta il bisogno di esplicitare la propria lotta, tra l’altro in uno scenario dislocato rispetto ai tradizionali santuari terroristici, come Siria-Iraq e Afghanistan-Pakistan, pare sospetto. In realtà l’obiettivo di questa “guerra” nelle terre dei poveri è una guerra contro i poveri, per recidere più a Sud di quanto non si sia tentato di fare ora in Libia (tra l’altro con enormi punti interrogativi sul rispetto dei diritti umani), il passaggio dei migranti guidati dai trafficanti di carne umana.
Anche in questo caso credo vada ripetuto con forza che i quattro grandi problemi del XXI secolo – terrorismo-radicalismo, finanza dominante, cambiamenti climatici e, appunto, migrazioni – siano globali e complessi, e che richiedano risposte altrettanto globali e complesse, oltre che concertate. Non capirlo, e continuare a risolvere tali problemi solo con l’arma dell’intervento militare è miopia. In Niger bisognerà da una parte sparare contro i terroristi, e non solo mettersi in mezzo ai litiganti, e dall’altra cercare di interrompere i flussi migratori, ma sapendo che chiusa una rotta se ne aprirà subito dopo un’altra. E allora, di fronte alle inevitabili difficoltà, si capirà di nuovo che per interrompere le rotte bisognerà scendere ancora più a Sud. La recente conferenza di Abidjan tra Unione europea e Unione africana sembrava aver individuato la complessità del problema, mentre questa decisione “militare” italiana o franco-italiana, sembra smentire i buoni propositi laggiù espressi dai leader europei.
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