di Letizia De Torre
07 marzo 2018
Fonte: Città Nuova
Dalla rivista culturale Nuova Umanità
Di quale “nuova era” parlava Chiara Lubich (1) quando scriveva, nel 1959, «quel giorno sarà l’inizio di una nuova era»? Aveva di fronte un mondo ancora lacerato dagli orrori della Seconda guerra mondiale. Aveva assistito alla fioritura impensata, da quel fango, di iniziative internazionali di pace come le Nazioni unite (24 ottobre 1945) e la Cee (25 marzo 1957), oggi Unione europea. Il suo ideale di unità, la cui nascita può essere fatta risalire al 1943, andava nella stessa direzione. Ebbene, lei vedeva necessario e possibile un passo ulteriore che rafforzasse quei luoghi di alta concertazione tra gli Stati: «Se un giorno i popoli sapranno posporre loro stessi, l’idea che essi hanno della propria patria […] per quell’amore reciproco fra gli Stati che Dio domanda come domanda l’amore reciproco fra i fratelli, quel giorno sarà l’inizio di una nuova era»(2).
In questi primi 17 anni del nuovo millennio, che tante attese aveva suscitato, registriamo al contrario un aumento di conflitti, di terrorismo, di disastri ambientali, di muri, di populismi e di nuove paure. Che gli Stati possano non solo essere in tregua, ma vivere l’uno in funzione del bene dell’altro è un sogno che con ragione si potrebbe definire un’ingenua utopia. E invece no: non è ingenuo e neppure utopico rimettere a fuoco il senso della politica, che è proprio quello di accompagnare questa fase di globale interconnessione del pianeta, piena di prospettive (se le sappiamo leggere), ma indubbiamente anche piena di crisi, di tensioni, di paure… fase che ha estremo bisogno di politica per capire, per sperare, per avanzare.
Alla politica viene rimproverata oggi una perdita di senso nella sua narrativa. Non si tratta di promettere un futuro tranquillizzante, ma di concepire questo cambio d’epoca come un passo nuovo, richiesto a noi come umanità, proprio nell’ambito delle relazioni, per portarle a un livello più alto rispetto a quello esclusivamente commerciale, economico, giuridico. E questo livello più alto – inizio di una nuova era che tutto può rivoluzionare – è l’amore scambievole tra i popoli.
L’intervento che segue è un estratto di quello che ebbi occasione di rivolgere alla ventiquattresima assemblea generale della Interparliamentary Assembly on Orthodoxy (Lao)(3), tenutasi presso il Parlamento italiano dal 25 al 30 giugno 2017, grazie alla collaborazione nata tra la Lao e il Movimento politico per l’unità (Mppu). Li considero solo primi cenni, in cui ho cercato di dimostrare che è conveniente e urgente che oggi la politica assuma un nuovo ruolo secondo questo paradigma, poiché «quel giorno, inizio di una nuova era», può iniziare oggi, nella storia dell’umanità che cammina verso la sua unità.
Dove va il mondo oggi? Le mappe geopolitiche a cui siamo abituati rappresentano ancora il mondo come un puzzle, con istituzioni internazionali che tentano di assi-curare stabilità. Ma tali mappe non esprimono il mondo come realmente è oggi. La vita di una qualsiasi città, ad esempio, non può essere chiusa in alcun confine nazionale: si voglia o no, appartiene al mondo per cibi, vestiti, negozi, lingue, fedi, conoscenze, notizie. E nel nostro smartphone c’è un mondo per cui non servono passaporti, e dove, nel bene e nel male, siamo continuamente presenti.
Tutto ciò è pratico, interessante, ma oggettivamente anche molto critico, non privo di pericoli. Può dare smarrimento, generare paure, indurre a chiudere porte, a erigere muri. Almeno per tenere fuori l’invasione da casa nostra.
«Fermate il mondo, voglio scendere!», gridava Mafalda (4)
La tentazione di pensarlo c’è sempre più frequentemente in qualche capo di Stato o di Governo che pare gridare: «Il mio Paese deve scendere!». Le conseguenze sono già state ben descritte: «I protezionismi spaventati e arrabbiati, la sfiducia verso i vicini (e naturalmente gli immigrati, che vengano da terre vicine o lontane), il nazionalismo nostalgico attivano delle dinamiche internazionali che possono sfuggire di mano, compattando sempre più i gruppi sulla base di identità esclusive. Quelle identità sono perfettamente legittime nelle loro origini storico-culturali, ma rischiano di indurirsi al punto tale da provocare il conflitto con altri gruppi» (5).
“Scendere dal mondo” può essere utopia pericolosa. Il “mondo a puzzle” non esiste, non è mai esistito da quando l’homo sapiens ha cominciato a migrare – pare 300 mila anni fa, dall’attuale Marocco – in un continuo spostarsi, incontrarsi, confliggere e poi riconoscersi simili, collegarsi, costruire grandi civiltà, che quando collassavano (dal crollo della civiltà greca, a quello dell’Impero romano; dal tramonto del Medioevo, alla Grande depressione industriale – per rimanere in Occidente) inducevano sempre crisi epocali.
Oggi sta crollando un mondo che abbiamo chiamato “globale”, non per-ché realmente si sia unificato, essendo cresciute le disuguaglianze e le guerre, ma perché è di fatto un unico mercato. Sta qui il punto critico, poiché l’umanità non è un mercato, è un corpo vivo, per cui valgono le parole di Gandhi: «Tu ed io non siamo che una cosa sola. Non posso farti del male senza ferirmi»(6).
Eppure anche quest’epoca, per molti aspetti piena di ombre, ha visto accelerarsi l’avvicinamento dell’umanità, incrementando filiere di scambi di tutti i generi e producendo una rete enorme di infrastrutture che connettono il mondo(7) e che spesso spostano il suo baricentro (pensiamo solo alla nuova via della seta) e di fronte a cui i confini nazionali sono quantitativamente(8) e qualitativamente poco influenti(9).
Un avvicinamento dell’umanità a cui concorrono anche le cooperazioni scientifiche, gli scambi culturali, i movimenti spirituali e la moltitudine di ong che operano per accrescere, a livello mondiale, la giustizia, i diritti, la condivisione dei beni.
Queste connessioni, ormai strutturali, stanno aprendo una nuova tappa nella storia dell’umanità, da cui neppure l’attuale fase di de-globalizzazione
– col nazionalismo economico, le tensioni protezionistiche e il sovranismo crescente – potrà riportarci indietro.
La politica riuscirà a salire su questo treno in corsa?
È una domanda cruciale dato che, oltre questo cambiamento epocale, è necessario cambiare paradigma, con molta lucidità, saggezza, riflessione. E per tale cambio di paradigma, occorrono, ovviamente, decisive scelte per-sonali e collettive.
Provo a offrire qualche spunto, che viene dalla riflessione e dall’esperienza del Movimento politico per l’unità. In tale originale network tra politici, studiosi, funzionari, cittadini attivi e molti giovani si è protesi a rinnovare lo stile politico e le politiche pubbliche. Via via emergono in tal modo delle li-nee di cultura e di azione politiche che si rivelano un contributo che risponde particolarmente alle attese di questa fase della storia:
- un mondo complesso ha bisogno di una governance complessa, cioè condotta da più attori connessi tra loro, che la politica deve saper supporta¬re, coordinare, armonizzare;
- il ruolo della politica, dunque, non va inteso come esclusivo o esausti¬vo, ma come il ruolo di chi rende possibile che tutta la società sia agente di cambiamento;
- si devono creare e garantire condizioni di consapevole responsabilità, di legalità, di trasparenza, di fiducia, di cooperazione, di co-responsabilità, affinché ciascuno sia sollecitato a confrontare le proprie aspirazioni con il bene comune e trovi le condizioni per cooperare con gli altri;
- non serve una politica pesante e burocratica, ma, anzi, leggera e con¬temporaneamente molto competente, che abbia chiarezza e fermezza sulle proprie responsabilità, non ultima quella di essere voce delle persone, dei gruppi e dei Paesi più deboli, per porli al centro dell’agenda politica;
- in questa epoca ciascun cittadino può essere attore di cambiamento. Ciò che Lorenz vedeva per il clima, «Può il battito d’ali di una farfalla scatenare un uragano a migliaia di chilometri di distanza?»(10), vale anche nel sistema politico diffuso e complesso del mondo di oggi;
- oggi la democrazia non può più essere solo rappresentativa, non basta solo il giorno delle elezioni. Il potere deve poggiare sul popolo ogni giorno, attraverso una nuova fase di una democrazia rigenerata, senza la paura che si differenzi e divenga molteplice nelle varie aree del mondo e nello stesso tempo diventi più universale, poiché l’umanità è una sola e la sua casa, il nostro pianeta, è anch’esso uno solo. I sistemi di comunicazione e di scambio di dati, ma soprattutto le nuove modalità della partecipazione e della deliberazione possono essere di grande aiuto, ma serve molta competenza per renderli seri e fecondi;
- occorre avere una visione ampia e lungimirante – l’umanità unita – con l’umiltà dei piccoli passi, fatti con la massima condivisione.
È chiaro che tutto ciò non poggia su una teoria, ma sulle persone: su cittadini e su leader anch’essi rigenerati. In particolare ogni politico, per sa-per operare nella dimensione sopra descritta, deve far precedere delle forti scelte personali. Spostare ogni interesse particolare per rivolgere tutte le capacità politiche verso la comunità, verso le sofferenze del proprio popolo, verso le esigenze della pace. Curare una propria seria preparazione, la ricerca del dialogo, il rispetto per l’avversario politico, assumere le istanze degli altri per progetti non di parte, ma volti al bene comune. Affrontare difficoltà, divisioni, spaccature, ferite della propria gente assumendole come proprie, per risanarle, anche attraverso processi di riconciliazione.
Un politico con un simile profilo sa di pagare un prezzo alto, come è alta la vocazione politica. Ma tale fedeltà, come è avvenuto per grandi figure del passato, gli darà autorevolezza: il potere, infatti, conferisce la forza, ma è vivere la politica come un altissimo ed esigente amore sociale che rende un leader politico un importante punto di riferimento.
Queste sono anche condizioni per avere occhi per poter leggere dove va il mondo, per capirne i segnali, per gettare lo sguardo oltre le fatiche dell’oggi, per rispondere ai problemi con lucidità e con una visione ampia, per avere la forza innovativa, fisica e mentale, necessaria per cambiare le cose.
la politica può ricominciare a pensare?
Sì, qui sorge una domanda cruciale: se cioè la politica oggi, intesa globalmente come attività dell’umanità, sia in grado di lettura, di visione, di pensiero. Ed è una domanda determinante perché, se la risposta fosse no, allora la politica non avrebbe senso, sarebbe morta, almeno in questo tempo. E dato che non è pensabile affrontare questo cambio d’epoca senza idee, la domanda successiva sarebbe: chi ha il diritto e il compito di averle queste idee?
La risposta a mio avviso non è né sì, né no. È una risposta inedita, se così si può dire. Invece di pensare la politica depositata nella tenda del capo, nel palazzo reale, nei parlamenti, nelle istituzioni internazionali… oggi dobbiamo scoprire che essa è anche fuori, in quei luoghi fino a ieri definiti “privati”, in contrapposizione ai luoghi “pubblici”. Ovunque oggi è depositata la responsabilità della convivenza dell’umanità. Analizzando oggi qualsiasi sfida del nostro tempo, da quella ambientale fino a quella migratoria, possiamo facilmente convincerci che c’è una moltitudine di attori che, in diversi modi, comprende anche noi come singoli cittadini, e che quindi anche l’intelligenza per rispondere a tali sfide è diffusa.
Ne consegue che non ci deve spaventare tanto l’assenza di idee della sfera politica, quanto piuttosto la sua ancora troppo scarsa capacità di far emergere e di far agire armonicamente letture, visioni e pensieri che già esistono dentro la società, sollecitati anche dalle fatiche dell’umanità di oggi, dalle possibilità di ricerca e dalla coerenza di tante persone e di tanti gruppi. In altre parole, nel mondo interconnesso di oggi il ruolo politico è quello della relazione, rivolta sempre – e qui è saldo il compito sempre antico e sempre nuovo della politica – al bene comune, sia nella convivenza locale sia in quella internazionale.
Vorrei, infine, soffermarmi su una tematica di forte attualità: quella della crisi delle comunità sovranazionali e delle tensioni interne agli Stati.
La sfida dei dualismi – “unificazione-identità”, “universalismo-sovranismo”, “apertura-protezionismo”, “unità nazionale-autonomia” – richiede, forse più di altre, un nuovo paradigma.
L’attuazione di una politica per l’unità e gli studi sulla cultura dell’unità ci suggeriscono che proprio l’unità può essere tale nuovo paradigma. Essa, in-fatti, non è uniformità, non è assolutamente annullamento delle differenze, non è, tanto meno, il dominio del più forte.
L’unità è la relazione tra realtà distinte. È essenziale avere una propria identità per aprire dei rapporti paritari e costruttivi. È necessario riconoscere e stimare l’autonomia dell’altro. Occorre un’arte per dialogare: capace di rivolgersi a tutti, di fare il primo passo, di comprendere la posizione degli altri, di saper affrontare conflitti e riconciliazioni, di saper amare non solo la propria patria, la propria parte politica, la propria visione politica, ma di ampliare lo sguardo fino a comprendere e amare reciprocamente l’uno la parte dell’altro, l’uno la patria dell’altro.
Si dà per scontato che uno Stato debba difendere i propri interessi, an-che a costo di danneggiare altri Stati, anzi indebolendoli per far emergere la propria potenza. Ma funziona? La storia pare insegnarci di no. Chi compie studi a riguardo, come l’Harvard Research Center for Creative Altruism, fondato da Sorokin(11), il cui libro più famoso titola The Ways and Power of Love, dimostra come il “potere dell’amore” sia stato, lungo la storia, molto più efficace della violenza per cambiare le cose.
La sfida è riuscire – attraverso la prassi e gli studi – a dare forza politica a tale dimensione di unità. Essa può rispondere alle tensioni che scuotono il mondo e indurre un avanzamento della storia, nell’attuale passaggio d’epoca tra globalismo e post-globalismo.
L’unità, infatti, è una dimensione dinamica, in cui le entità politiche sono in grado di unirsi, ma anche di distinguersi. Non si tratta di scegliere tra universalismo e identità nazionali. L’essere parte di una realtà più vasta di Stati, come ad esempio l’Unione europea, non contrasta con l’esigenza di far crescere la storia del proprio popolo. Non contrasta, appunto, perché non è uniformità, ma relazione. Relazione tra comunità politiche che si crea e si ricrea ciclicamente, producendo e mettendo in circolo, così, un’enorme ricchezza sul piano locale e internazionale.
È una sorta di rivoluzione copernicana della geopolitica e della governance a tutti i livelli, che richiede conseguentemente di ripensare, tra il resto, il valore politico delle autonomie (città o nazioni); le modalità con cui si compone una comunità di comunità; i criteri con cui un’autonomia non si isola, ma sa prendere le responsabilità di una comunità più vasta; le modalità con cui si compone l’agenda di tale comunità vasta; nuovi princìpi di uguaglianza tra i popoli, nella proprietà, nella distribuzione e nella tutela dei beni (compresi l’acqua e i beni del sottosuolo); e così via.
Criteri che potranno e dovranno evolvere e maturare, ma con la bussola puntata altrove: dando, cioè, importanza all’altro popolo come al proprio. Qui è la sfida e qui è la “novità”.
E per tale “novità” il funzionamento di una comunità sovranazionale non può poggiare su regole e direttive: lo dicono anche i fatti, che sono sotto i nostri occhi, che esse conducono a un punto di rottura. Ci dobbiamo basare e sperimentare sulla fiducia, sulla condivisione, sulla corresponsabilità. E mentre le direttive possono essere affidate alla burocrazia, questi legami no: essi appartengono alla politica.
Ed è per questo che è necessaria la politica. A patto, però, che sappia assumere i valori accennati sopra, che sia consapevole del nuovo ruolo relazionale che le è richiesto e che sia guidata dal paradigma dell’unità nella molteplicità. Solo questa è la politica utile in questo millennio. Ed essa deve tornare urgentemente in campo a tutti i livelli.
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1 (1920-2008), fondatrice nel 1943 del Movimento dei Focolari, è considerata una delle personalità spirituali di maggiore rilievo del Novecento. È stata impegnata in prima linea nella comunione ecclesiale, nell’ecumenismo, nel dialogo interreligioso e con persone di convinzioni non religiose, promotrice instan¬cabile di una cultura dell’unità e della fraternità tra i popoli (www.centrochiaralu¬bich.org).
2 C. Lubich, Maria, Regina del mondo, «Città Nuova», 30 agosto 1959.
3 La Iao è un gruppo interparlamentare nato da una iniziativa del Parlamento greco, che nel 1993 ha indetto una conferenza sulla “Ortodossia nella nuova realtà europea”. I partecipanti provenivano da numerosi Paesi, sopratutto dell’Est euro¬peo, ma ben presto la Iao si è spinta oltre i confini europei. Considera la comune appartenenza alla fede ortodossa come un «punto di incontro per la partecipazione alla costruzione della complessa realtà contemporanea». Per questo si sta aprendo a collaborazioni con il Parlamento panafricano e con l’Unione parlamentare degli Stati membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica (Oic); cf. http://eiao. org/homeenglish.
4 Mafalda è un personaggio immaginario protagonista dell’omonima striscia a fumetti realizzata dall’argentino Joaquín Lavado, in arte Quino, pubblicata dal 1964 al 1973, molto popolare in America Latina e in Europa.
5 Aspenia76_Editoriale.pdf.
6 L. Guglielmoni – F. Negri, Per cortesia…, Effatà Editrice, Torino 2012, pensiero n. 80.
7 64 mila km di strade, 4 mila km di ferrovie, gallerie, porti, aeroporti, 2 mila km di oleodotti e gasdotti, reti elettriche, mille km di cavi internet, satelliti, reti cellulari, data base…; fonte: Parag Khanna, Connectography, 2016 .
8 Solo 500 km; fonte: ibid.
9 Cf. ibid.
10 Edward Lorenz, meteorologo del Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston, fu il primo ad analizzare l’effetto farfalla in uno scritto del 1963 preparato per la New York Academy of Sciences.
11 Pitirim Aleksandrovicˇ Sorokin (1889-1968) visse da protagonista i drammatici eventi della Rivoluzione russa: fu arrestato per la sua opposizione allo zarismo nel 1911 e nel 1913, in seguito segretario del presidente Kerenskij, fu poi perseguitato sotto la dittatura leninista nel 1918 ed esiliato nel 1922. Nel 1923 si trasferì negli Stati Uniti per insegnare dapprima all’Università del Minnesota, quindi ad Harvard, dove fondò nel 1931 la Facoltà di Sociologia e successivamente l’Harvard Research Center in Creative Altruism. È da annoverare tra i massimi sociologi del secolo XX, ricevendo per la sua carriera accademica onori e riconoscimenti, tra cui, nel 1963, la presidenza dell’American Sociology society
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