Verso la libertà
Gli USA a cinquant’anni dal Civil Rights Act
Sono passati cinquant’anni dall’approvazione negli Stati Uniti del Civil Rights Act, che ha segnato la fine legale di discriminazione e segregazione razziale, sebbene il pregiudizio nei
confronti delle persone di colore abbia continuato a segnare la storia di una delle maggiori potenze mondiali. Negli ultimi anni, tuttavia, sembra davvero che la società americana stia
andando oltre la dicotomia bianchi/neri. Riusciranno gli USA a fare tesoro della loro storia e a mettere in atto una politica migratoria giusta ed equa, superando le loro paure e creando
una società più inclusiva e partecipativa?
Non molti Paesi in epoca moderna sono stati più impegnati degli Stati Uniti nell’intrecciare l’elemento razziale nel tessuto sociale. Il perpetuarsi di una schiavitù a base razziale in una nazione fondata su nozioni radicali di libertà individuale alimentò un dualismo riguardo ai concetti di “bianco” e “nero” che, seppur semplicistica, durò a lungo sia nel diritto, sia nella cultura americani. Sebbene un’atroce guerra civile abbia posto fine all’istituzione legalmente riconosciuta della schiavitù (1861-1865), ciò non bastò a impedire che le persone di “provata” origine africana fossero, allora come oggi, politicamente e socialmente emarginate. La nostra ossessione per le razze è stata all’origine di alcuni tra i più riprovevoli eventi della nostra storia, ma ha anche dato adito ad alcuni dei nostri più grandi trionfi.
Tra questi eventi da celebrare, ce ne fu uno il cui cinquantesimo anniversario è ricorso quest’estate: l’approvazione del Civil Rights Act da parte del Parlamento degli Stati Uniti nel 1964. Pur pensato in una prospettiva più ampia della sola discriminazione razziale, esso è considerato come un grande trionfo del movimento per i diritti civili e dello sforzo di porre fine alla discriminazione nei confronti dei neri negli Stati Uniti e contribuì a completare la trasformazione degli Stati Uniti da nazione provinciale di ristrette vedute a potenza globale.
Affrontando la discriminazione
Cinquant’anni sono un lungo periodo nella vita di una persona(nel mio caso sono una vita intera), ed è perciò sempre più difficile per la gente di oggi immaginare come fossero gli Stati Uniti prima del 1964. Per chi se ne ricorda, i cambiamenti scatenati dal Civil Rights Act furono straordinari e parte di un periodo di stridente cambiamento culturale e legale.
Prima del 1964, la discriminazione e la segregazione razziali erano abituali e parte integrante nella vita della maggior parte degli americani. Nonostante la Corte Suprema degli Stati Uniti avesse bandito la segregazione razziale dalle scuole pubbliche nel 1954, all’inizio degli anni ’60 e per molti anni a venire sia nel Nord sia nel Sud del Paese si continuò a opporre una diffusa resistenza a questa regola. La segregazione era ancora la norma, implicita ed esplicita, in quasi tutto il resto della vita quotidiana.
A metà degli anni ’50 mio nonno e i suoi fratelli emigrarono dalle province rurali verso le città del petrolio nella Louisiana del Sud, rispondendo alla crescente domanda di manovalanza di basso e medio livello. Nel giorno di paga erano soliti avviarsi verso la raffineria per riscuotere il salario. Qualche volta venivano pagati subito. Altre volte passavano tutto il giorno a guardare mentre tutti i bianchi della fabbrica venivano chiamati nell’ufficio per essere pagati; questo spesso comportava che loro non ricevessero i soldi se non alla fine della giornata. Tali comportamenti facevano parte degli affronti quotidiani nei riguardi di chi era nero negli Stati Uniti e non erano nemmeno considerati degni di nota da parte di molti che ne erano vittime, nonostante il disagio e l’umiliazione che causavano, e non sono dissimili da certi affronti spesso subiti oggi dagli immigrati irregolari. L’emarginazione e la debolezza rendono facili prede di occasionali atti di crudeltà, piccola e grande.
Già dai primi anni ’60 era chiaro che l’opinione degli americani circa la questione della razza stava mutando, ma il vero cambiamento era ancora lontano a venire. Nel 1961 il padre di mia moglie divenne uno dei primi ingegneri neri impiegati dai Bell Labs. Fin dal primo giorno fu tormentato senza tregua: dalla spazzatura rovesciata sulla sua sedia, ai pupazzi che venivano regolarmente impiccati alla lampada sulla sua scrivania. Nel frattempo, lui e la moglie non riuscivano a trovare una casa decente dove andare a vivere, finché mia suocera non prese direttamente in mano la situazione. Cercando casa da sola, con la sua pelle olivastra e i lunghi capelli castani, si presentava bene come inquilina per appartamenti nella cittadina benestante di Summit (New Jersey), dove infine si stabilirono e dove mia moglie visse durante l’infanzia. Tuttavia, acquistare casa lì si rivelò molto difficile (mia suocera non aveva i mezzi per farlo da sola) e così finirono per stabilirsi in una città limitrofa più multietnica ma sempre più segregata e decadente. Come a tanti altri professionisti neri del loro tempo, se volevano vivere in una comunità che in qualche modo li accettasse, si vedevano negata l’opportunità di accumulare ricchezza investendo in una casa di loro proprietà, poiché queste spesso si svalutavano nel tempo con l’aumentare della segregazione nei quartieri dove risiedevano.
Il Civil Rights Act dette il via a una cascata di leggi stilate con l’intento di promuovere l’uguaglianza tra le razze e tra i sessi, una politica equa della casa e dei salari, ma considerando gli eventi degli ultimi cinquant’anni è particolarmente evidente il fatto che ci volle molto tempo affinché si consolidasse un vero cambiamento, e che esso fu spesso dovuto a fattori esterni, quali il cambiamento economico, l’immigrazione e il semplice passare del tempo. Altrettanto impressionante è ciò che si staglia all’orizzonte. Potrebbe essere prematuro chiamare gli Stati Uniti una nazione post-razziale, ma è chiaro che il processo che porterà a quel tipo di società è già ben avviato.
Una storia eccezionale
Nonostante l’onnipresenza della razza come elemento strutturante della nostra storia, gli americani sono molto a disagio quando si tratta di accettarla e farla propria come parte integrante di una identità condivisa. Molti spesso si affannano per fingere di non vedere il fattore razziale nella vita quotidiana (quante volte si descrive qualcuno nei minimi particolari, prima di arrivare a dire che è nero!), si accettano senza alcun problema gli effetti corrosivi del razzismo tuttora presenti nelle istituzioni e nella struttura sociale. Altri tendono a insistere sul fatto che il razzismo americano fu semplicemente una sfortunata aberrazione della gloriosa storia degli inizi della nazione. Molti sostengono che la razza non conta più e si oppongono anche agli sforzi più modesti di riparare al passato razzista dell’America. Ed è un peccato, poiché ci sono state anche delle vittorie sui nostri demoni della razza che vale la pena festeggiare, e quei momenti della nostra storia segnano dei successi peculiari dell’esperimento americano.
Gli Stati Uniti non furono i soli a creare e mantenere una classe inferiore, ma non molti altri Paesi sono altrettanto veloci nell’assegnare a sé stessi uno status di eccezionalità che suggerisca il contrario. Non molto tempo fa, durante il discorso inaugurale all’Accademia militare di West Point, il presidente Obama dichiarò di credere«con tutte le fibre del suo essere» nell’eccezionalità americana e che gli Stati Uniti rimangano l’unica nazione «indispensabile». Il Civil Rights Act fu sicuramente un momento di eccezionale presa di coscienza ed è quasi impossibile immaginare che al giorno d’oggi si possa varare un insieme di leggi così rivoluzionario. Ma gli Stati Uniti dimostrarono anche un forte attaccamento all’istituzione della schiavitù, molto tempo dopo che la maggior parte delle altre società vi aveva posto fine, e ci volle una guerra civile di brutalità scioccante per abolirla. Dopo la guerra, abbiamo mantenuto per un altro secolo un sistema altamente efficace di segregazione razziale con mezzi legali e non. Tutto ciò rende gli Stati Uniti eccezionali (e forse non così indispensabili), ma non nel modo che che noi di solito vogliamo far intendere.
Nell’ultima decina d’anni tuttavia si è diffusa sempre di più in molti americani la sensazione che qualcosa di fondamentale sia cambiato nell’intendere la questione razziale. Abbiamo un Presidente afroamericano con una madre bianca e un padre keniota. La categoria razziale con la crescita più rapida nel censimento statunitense è attualmente quella della “razza mista” e improvvisamente la polarità neri/bianchi, che era una parte così integrante della coscienza americana, comincia a suonare sorpassata e anacronistica. Nelle aree urbane di Boston, dove abito, la popolazione nera sta crescendo rapidamente grazie all’immigrazione dall’Africa, dai Caraibi e dall’America Latina. Molti di questi immigrati rifiutano la dicotomia americana bianco/nero e non vogliono avere nulla a che fare con il termine “afroamericano”. Nella mia stessa famiglia, la maggior parte dei cugini primi dei miei figli appartiene a famiglie multirazziali, e prevedo che la cosa continuerà quando osservo i miei figli uscire con i loro rispettivi fidanzati e fidanzate, preparandosi a scegliere i loro compagni di vita.
La prossima battaglia
Benché sia importante onorare il passato mentre si festeggia il cinquantesimo del Civil Rights Act, è essenziale prendere in considerazione il futuro. Come verranno interpretati la razza e la discriminazione
razziale in un’America sempre più multiculturale? I discendenti degli schiavi negli Stati Uniti figurano ancora in modo sproporzionato nelle statistiche negative relative a indigenza, istruzione, famiglie monoparentali, creazione di ricchezza e speranza di vita. La discriminazione e il razzismo si fanno ancora regolarmente vedere. Il Presidente è stato vittima di uno sforzo clamoroso da parte del Partito repubblicano di rendergli quasi impossibile governare e si sentono ripetutamente dichiarazioni da parte di parlamentari repubblicani tali da non lasciare dubbi sul fatto che essi preferirebbero il blocco dell’azione di governo piuttosto che lavorare con Barack Obama. Abbiamo dovuto assistere all’umiliazione scioccante di un Presidente fischiato da un membro del Parlamento durante l’annuale discorso sullo stato dell’Unione.
Sì, penso che una bella fetta del problema sia la razza, ma quanto a lungo costoro – in gran parte uomini bianchi arrabbiati eletti in collegi blindati – potranno continuare a ignorare la realtà multirazziale dell’America e la sfida a lungo termine che essa presenta alla politica nella nostra democrazia?
Parlando come persona che ha visto l’orizzonte delle possibilità della propria vita allargarsi grazie al Civil Rights Act, sono profondamente grato agli uomini e alle donne del movimento dei diritti civili e del governo che ebbero il coraggio e l’ispirazione di renderlo realtà. Ma guardando al futuro, darò il benvenuto a un’America che non sia più divisa tra bianchi e neri. Mi danno speranza i giovani che incontro e che vengono da posti come Ghana, Nigeria, Repubblica Dominicana, Haiti e Brasile, che hanno spinto gli americani verso una consapevolezza più ricca e globale di che cosa significhi essere nero. Benedico l’immigrazione dall’America Latina, dall’Asia e altrove, che è stata un fattore chiave nel rendere le nostre città più cosmopolite, vivaci e aperte.
Sotto molti aspetti, il modo in cui trattiamo gli immigrati si sta rivelando come un nuovo problema di diritti civili, e solleva preoccupazioni circa esclusione, inclusione e partecipazione in una società democratica, le stesse che caratterizzarono anche il movimento dei diritti civili alla metà del XX secolo. Questi problemi dovrebbero avere un peso particolare per i cattolici, poiché i nostri insegnamenti in campo sociale si schierano in maniera molto forte a favore dell’inclusione sociale dei poveri e degli stranieri. Mentre il Parlamento divora risorse in termini di tempo e denaro per realizzare ben poco che sia duraturo in relazione all’immigrazione, la sua indifferenza e inerzia dovrebbero sottolineare l’opportunità per noi di agire in modi che facciano onore al retaggio del Civil Rights Act.
L’immigrazione non rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti più di quanto non lo fosse il permettere ai neri di accedere ai posti di lavoro in posizione di parità o di comprare casa dove volessero. Trattare le persone con dignità a prescindere dal colore della pelle, dal sesso, dall’orientamento sessuale o dal Paese di origine richiede di liberarsi di pregiudizi di vecchia data e impone un cambiamento. Accogliere le possibilità e le opportunità che si presenteranno con un sistema più umano di immigrazione in questo Paese ci consentirà di riconoscere la realtà di un cambiamento che è già in atto e che offre ai nostri figli e nipoti la speranza che l’America multiculturale che sta emergendo intorno a loro sarà un luogo pieno di aspettative, opportunità e vigore, invece che una roccaforte di rabbia e paura.
Nel 1964 serpeggiava molta paura e il superamento di secoli di discriminazione razziale in questo Paese è ancora in fase di completamento, ma come società ci esprimiamo al meglio quando ci apriamo alle possibilità di molti e quando riusciamo a guardare oltre noi stessi per vedere Dio nel volto dell’altro.
Festeggiare il Civil Rights Act ci permette di ricordare un periodo molto difficile nella nostra storia comune e ci ricorda quanto abbiamo progredito. Ci ricorda anche la saggezza e la dignità di chi ci ha preceduto e ha creduto che questa nazione potesse essere migliore. Lo sviluppo di una politica migratoria giusta e umana sarebbe un ulteriore passo verso tale meta e un modo degno di onorare il retaggio del Civil Rights Act in una nazione che sta velocemente superando la contrapposizione tra bianchi e neri.
Vincent D. Rougeau
Preside della Law School del Boston College di Newton Centre,
Massachussetts (USA)
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