Pasquale Ferrara riflette sull’uscita britannica dalla UE.
Il Regno Unito, liberalista, ora è in via di uscita della Unione Europea, autorizzando la circolazione di beni, capitali e servizi ma non di cittadini europei. Contro la giustificativa dell’immigrazione e multiculturalismo vediamo l’effetto della storia coloniale dell’Impero Britannico, dove anche le politiche sono locali e non europee. La ribellione contro l’UE viene principalmente dai settori provati dalla crisi, quest’ultima causata dalla globalizzazione senza regole, “anglo-inglese”, che cerca la competitività al di sopra di tutto, anche dai diritti fondamentali dai lavoratori. I giovani sono andati in controcorrente, avendo più di due terzi a favore dell’opzione “remain”. L’astensione giovanile è stata cruciale in negativo per il risultato finale, lasciando che gli anziani decidessero per le nuove generazioni condizionandone pesantemente il futuro. L’uscita dell’UE per la Gran Bretagna ha anche spinto un referendum per l’indipendenza nella Scozia, che intende rimanere nell’UE, oltre che ha fatto balenare la possibilità di una riunificazione della Irlanda del Nord con l’Irlanda per rimanere nella Unione.
Il grande imbroglio del referendum. Il voto contro la libera circolazione degli altri cittadini europei. L’opposizione di Londra alle tutele rafforzate per i lavoratori. La scelta controcorrente dei giovani. Il rischio di disintegrazione del Regno Unito
Alcuni aspetti del referendum inglese sulla Brexit sono paradossali e persino grotteschi.
1. Il referendum, da massima espressione della democrazia, in certe circostanze si rivela un grande imbroglio. Ridurre l’appartenenza all’Unione Europea ad un sì o un no significa manipolare l’opinione. In pratica, contro cosa hanno votato gli Inglesi? Sono già fuori dall’Euro, fuori da Schengen, fuori dal Fiscal Compact, fuori dall’Unione Bancaria, fuori dalla carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e in più ricevono ogni anni il cosiddetto “rebate”, cioè si riprendono parte del finanziamento che versano all’Unione Europea. E dubito che abbiano votato contro il Mercato Unico, contro Erasmus, contro i fondi che le Università britanniche ricevono copiosamente dall’European Research Council.
2. Si dice che gli Inglesi abbiano votato contro l’immigrazione e contro il multiculturalismo. Ma l’immigrazione in Inghilterra ha poco a che fare, ad esempio, con i rifugiati del Medio Oriente e moltissimo, invece, con la storia coloniale (africana ed asiatica) dell’Impero britannico. E le politiche multiculturali e migratorie inglesi non sono certo dettate dall’Europa, ma dal governo e dal parlamento inglesi.
3. L’unica cosa contro cui hanno davvero votato gli Inglesi è la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea. Cioè contro gli altri cittadini europei. Il che è gravissimo: possono circolare le merci, possono circolare i capitali, possono circolare i servizi, ma non possono circolare le persone che lavorano. Come “Europa dei popoli”‘, come dicono baldanzosamente gli Euro-rottamatori, non c’è male!
4. La ribellione contro l’Unione Europea è venuta dai settori economicamente più provati dalla crisi. Ma il liberismo economico, che ha esposto i lavoratori all’aggressione del mercato globale, è un prodotto “anglo-inglese”, che si contrappone nettamente all’idea di un’economia sociale di mercato di stampo continentale. La ragione di fondo per cui gli inglesi non hanno adottato la carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea risiede proprio nella loro opposizione a prevedere tutele rafforzate per i lavoratori, sulla base dell’ideologia della liberalizzazione dei mercati nell’economia globale. Il successo inglese nel capitalismo finanziario speculativo si deve proprio a questa scelta di fondo per una globalizzazione con poche regole e quindi con scarsa protezione per quanti, per età o per mancanza di qualificazione o titolo di studio, non sono “competitivi”.
5. Gli Inglesi, da questo punto di vista, hanno votato contro sé stessi, più che contro l’Unione Europea, che è portatrice, da sempre, di un diverso modello, che l’Inghilterra considera, in fondo, statalista ed assistenzialista. Quanti, in Italia e altrove, hanno esultato alla vittoria del “leave” in nome di un’Europa più attenta ai bisogni e più inclusiva in termini socio-economici, hanno dunque sbagliato obiettivo, perché sono il Regno Unito e i governi inglesi da Margaret Thatcher a Tony Blair a Cameron che hanno spinto verso la deregulation e la cosiddetta “flessibilità” nel mercato del lavoro.
6. Il voto dei giovani è andato nettamente all’opzione “remain”. Il 75% degli under 25 ha votato per rimanere nell’Unione Europea, mentre il 61% dei cittadini inglesi over 65 anni ha votato per lasciare l’UE. Il fatto che gli elettori nella fascia d’età tra i 18 ed i 24 anni siano stati solo il 36%, mentre quelli oltre i 65 anni l’83%, indica certamente che l’astensione giovanile è stata purtroppo cruciale (in negativo), ma ciò non toglie che gli anziani abbiano deciso per le nuove generazioni, condizionandone pesantemente il futuro.
7. Il successo del Leave ha aperto un vaso di Pandora anzitutto per gli inglesi, che rischiano di trovarsi con un Kingdom sempre meno United. La Scozia ha fatto capire che riproporrà il referendum per l’indipendenza, e gli scozzesi intendono rimanere nell’Unione. L’Irlanda del Nord, sia la parte cattolica che quella protestante, ha votato per il remain, e ciò ha fatto già balenare la possibilità di una “riunificazione” con l’Irlanda. Il realismo politico forse prevarrà, ma il “genio della lampada” della disintegrazione, una volta liberato, non può essere controllato da nessuno.
Fonte: Cittanuova.it
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