Di Romano Prodi su
del 14 gennaio 2018
La consapevolezza sui problemi dell’ambiente ha per fortuna segnato enormi progressi. Da un soggetto che interessava soltanto un ristretto numero di persone, anche se di elevato livello intellettuale come era il club di Roma nel secolo scorso, è progressivamente entrata nella coscienza popolare. Essa ricopre un ruolo sempre più rilevante nei programmi di governo di un crescente numero di paesi. Oggi la custodia dell’ambiente è nel cuore della maggioranza degli abitanti del globo anche attraverso il messaggio dei maggiori leader intellettuali e religiosi, a cominciare da Papa Francesco.
Essendo un problema che per definizione supera i confini nazionali la politica ambientale ha dato vita ad un’attività di cooperazione internazionale anche con conferenze che, negli ultimi anni, hanno fatto storia. Il primo passo è stato compiuto nel 2005 con l’entrata in vigore del protocollo di Kyoto, voluto fermamente dalla Commissione europea e firmato da un grande numero di paesi, nonostante l’opposizione dei due maggiori inquinatori del mondo: la Cina e gli Stati Uniti. L’obiettivo di arrivare ad un’adesione veramente globale non ha avuto successo nemmeno nel 2009, con il così detto COP di Copenaghen, finito con un disaccordo generale. Si è giunti finalmente alla “trionfale”conferenza di Parigi del 2015, dove quasi 20 mila delegati provenienti da 196 paesi si sono accordati sugli obiettivi e sugli strumenti idonei per affrontare i cambiamenti climatici, con l’obbligo collettivo di limitare la concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera.
Nello scorso novembre un numero ancora più numeroso di delegati è arrivato a Bonn per ribadire gli stessi impegni. Ancora più numerosi saranno i delegati che, nel prossimo anno, si riuniranno in Polonia per riconfermare più o meno gli stessi propositi. Una strategia ampiamente condivisa, data la frequenza dei disastri che avvengono nel mondo in conseguenza delle inondazioni, dei tornado e della siccità.
Senza sollevare doverosi interrogativi sull’utilità di queste ripetute conferenze che mobilitano decine di migliaia di partecipanti con decine di milioni di dollari di spesa, abbiamo l’obbligo di esaminare con oggettiva serenità se si stiano concretamente realizzando gli impegni che esse si sono assunte nei confronti dell’ambiente.
I dati in nostro possesso sono sconfortanti: nel corso del 2017, in perfetta coerenza con la ripresa economica, le emissioni di CO2 hanno ripreso a crescere. Non solo: la ONG tedesca (Urgewald), che ha diligentemente compiuto un censimento mondiale in materia, ci comunica che oggi nel mondo esistono progetti per la costruzione dell’incredibile numero di 1.694 centrali a carbone. Tutto questo non solo nei paesi periferici o sottosviluppati ma anche nella nostra cara Europa. Non solo in Polonia, dove il carbone regna sovrano, ma anche in Germania, dove si ricorre addirittura ad un intensificato uso della lignite, combustibile ancora più inquinante dell’orrendo carbone.
I pur legittimi interessi locali sono talmente prevalenti rispetto agli interessi generali che, nelle discussioni programmatiche per la formazione del governo tedesco, si sta pensando addirittura ad una marcia indietro rispetto ai severi impegni presi dalla cancelliera Merkel. Essi sono oggi ritenuti troppo gravosi.
Analizzando quindi i dati disponibili siamo costretti a concludere che il processo di inquinamento ha avuto un attimo di sosta soltanto durante la crisi economica ma ha poi ripreso a crescere con il miglioramento dell’economia mondiale. Ci troviamo inoltre di fronte a un evento paradossale: nello scorso anno, il comportamento più virtuoso è stato quello degli Stati Uniti, proprio il paese che, con cinismo e noncuranza per l’interesse generale, ha denunciato gli accordi di Parigi. Questo semplicemente perché i nuovi giacimenti hanno reso più conveniente l’uso del gas nei confronti di quello del carbone. Non preoccupiamoci però di questo perché Trump ha già provveduto a sussidiare i produttori di carbone in modo che possano ritornare ad essere competitivi. Il “cammino virtuoso” americano è già destinato a finire.
Nella stessa linea di protezione degli interessi nazionali sembrano procedere i progetti di accordo fra il presidente francese Macron e il presidente cinese Xi Jinping, con uno scambio di affari incrociati fra le centrali nucleari francesi e gli impianti solari cinesi. In questo caso gli accordi possono anche contribuire alla diminuzione dell’inquinamento ma solo come conseguenza secondaria dell’interesse commerciale.
Le conclusioni sono quindi assai semplici. In primo luogo gli interessi economici particolari prevalgono ancora sugli interessi ambientali generali. In secondo luogo si continuano a fare grandi convegni (costosi e ripetitivi) ma non si impiegano risorse sufficienti nel monitoraggio dei risultati. Non esiste, infine, alcuna autorità capace di obbligare al rispetto degli impegni assunti.
Credo che sia giunto il tempo di riflettere su tutto questo e trarne le giuste conclusioni: non è con i discorsi, con le mega-convenzioni o con i trattati solenni che si garantisce il futuro del nostro pianeta, ma solo con comportamenti coerenti con gli obiettivi assunti.
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