Uno dei commenti più acuti sulle ultime decisioni della presidenza statunitense lo ha fatto, il rettore di una delle università di giurisprudenza gesuite più note negli Usa: «Trump è un esperimento e non una sorpresa. Chi continua a stupirsi non ha compreso appieno le radici del nostro Paese che è nato come esperimento e ha sempre continuato a sperimentare e sperimentarsi. Lo ha fatto in tutti i campi e perché la politica dovrebbe esserne esclusa?». L’esperimento-Trump in questi dieci mesi di governo ha riservato non poche sorprese, soprattutto a livello internazionale.
Quattro giorni dopo il suo ingresso alla Casa Bianca un ordine esecutivo ha bloccato la ratifica del Tpp – il trattato commerciale Trans Pacifico considerato una «catastrofe all’ennesima potenza per il nostro Paese», per i risvolti negativi sull’occupazione interna.
Il neopresidente in quell’occasione ha voluto confermare il suo slogan elettorale “America first” (prima l’America), affermando che «solo gli accordi commerciali bilaterali riporteranno industrie e posti di lavoro sul territorio»; in realtà il trattato non era ancora stato ratificato dal Senato e quindi non era ancora entrato in vigore. L’annuncio è bastato a riportare l’attenzione su un Paese perdente, sfruttato, depauperato delle sue risorse anche dalle istituzioni internazionali: una delle tesi che lo sperimentatore Trump continua a testare in antitesi con il resto del mondo. In questa direzione vanno lette anche le critiche alla Nato e ai suoi costi che non reggono però alla pragmaticità della storia, perché il presidente statunitense ne ha chiesto il sostegno, qualche mese dopo, nella missione contro il Daesh in Siria e Iraq.
Il no agli accordi di Parigi ha scandalizzato il mondo, ma anche questo annuncio si è rivelato strategico nel consentirgli di firmare norme che limitano enormemente i poteri dell’Agenzia dell’ambiente statunitense e che riaprono invece vecchie centrali elettriche a carbone, un numero limitato rispetto alle aziende verdi sponsorizzate dalle precedenti amministrazioni.
Di fatto l’Accordo di Parigi, essendo un trattato internazionale entrato in vigore a novembre 2016, contiene un articolo che impegna gli Stati sottoscrittori a non uscirne fino al 2019 quando potranno presentare la richiesta di dimissioni che potranno diventare effettive solo nel 2020 e a quel tempo Trump potrebbe non essere più presidente.
Il tentativo di silurare il Nafta, il trattato di libero scambio del Nord America siglato con Canada e Messico potrebbe essere bloccato dal Congresso che tra i suoi poteri ha quello di regolare il commercio con le nazioni straniere. È vero che nella legge istitutiva dell’accordo non è previsto l’intervento del Congresso, ma la decisione unilaterale del presidente potrebbe inasprire i rapporti al punto da mettere in discussione l’approvazione di norme fondamentali per Trump, come la riforma fiscale. Inoltre Messico e Canada potrebbero non essere ben disposti a trattati bilaterali, dopo lo scioglimento del Nafta, e il protezionismo che Trump pensa di esercitare nei confronti delle aziende statunitensi si potrebbe trasformare in isolazionismo che lascerebbe campo libero alla Cina.
Gli economisti concordano sul fatto che il Nafta ha provocato la perdita di posti di lavoro che non verrebbero rimpiazzati dalla sua chiusura perché l’automazione ha già di fatto sostituito gli operai. A ciò si aggiungerebbe il rischio di veder crescere i dazi dei Paesi ex-alleati.
Nell’ultima settimana Trump ha minacciato di uscire dall’Unesco e ha “ordinato” al Congresso di non certificare l’accordo siglato con l’Iran sulla limitazione degli armamenti nucleari. L’annuncio dell’abbandono dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura era legato alla possibile elezione alla presidenza di un rappresentante del Qatar e alle posizioni anti-semite assunte dall’Organizzazione, che nel tempo non è più solo un’istituzione focalizzata sulla cultura, ma un tavolo politico su cui i Paesi membri misurano posizioni e alleanze.
L’improvvisa decisione di Trump ha costretto Israele ad affiancare gli Usa, anche se la stampa statunitense ha rivelato che Netanyahu non era stato precedentemente informato della decisione presidenziale. Va precisato che già dal 2011, durante la presidenza Obama, gli Stati uniti non hanno versato la loro quota per protestare contro la decisione di inserire la Palestina all’interno dell’Assemblea Onu. E ora il debito ammonta a diversi milioni di dollari. Intanto il passaggio da Stato membro ad osservatore, annunciata per il 2018, non è stata ancora notificata con un documento ufficiale.
Più complessa è la situazione sul nucleare iraniano. La possibilità di non varare il rispetto dell’accordo sul nucleare siglato assieme ad Europa, Russia e Cina e sostenuto dall’Onu vanificherebbe gli sforzi condotti negli ultimi per impedire la proliferazione di armi nucleari nell’area mediorientale, già destabilizzata da molti conflitti; e metterebbe a rischio anche Israele, amico storico degli Usa. L’Iran ha di fatto abbandonato quasi tutti gli aspetti più critici del suo programma, dall’ammodernamento delle centrali all’arricchimento dell’uranio e le aree ancora da rivedere sono limitate, sostengono anche membri dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea) che ha visionato tutti i siti.
«Le dichiarazioni di Trump sulla violazione del trattato poiché non è stato del tutto smantellato un reattore e l’assimilazione dell’Iran ad al Qaeda e alla Corea del Nord, ricordano le affermazioni fuorvianti di Bush nel 2003, quelle che portarono poi alla guerra in Iraq – spiega Philip Gordon, membro del Consiglio per le relazioni estere –. Ora spetta al Congresso non cedere e non ricadere negli stessi errori che hanno portato ad una guerra disastrosa». Imporre nuove sanzioni all’Iran romperebbe anche la storica alleanza con l’Europa, che si troverebbe a fare asse con Cina e Russia.
Trump-sperimentatore, per soddisfare la sua base elettorale continua a esercitarsi su terreni spesso pericolosi, senza chiarezza strategica: questo lo rende inaffidabile e gli aliena le simpatie di alleati storici, mentre le istituzioni internazionali che vedono messo sempre più in discussione il loro ruolo, lo osservano con sospetto. Le picconate al valore delle grandi agenzie internazionali non sono una specificità solo Usa, perché anche in Europa le contestazioni a riguardo non sono poche, come provano anche le ultime tornate elettorali. La situazione Usa è anche un monito nel non dare per scontato il senso e l’autorevolezza delle istituzioni: questi sentimenti civici innati nei padri fondatori che avevano vissuto la guerra vanno riscoperti e coltivati perché l’isolazionismo del mondo economicamente e tecnologicamente globale è un rischio serio.
Fonte: Città Nuova
Scrivi un commento