La sofferta dignità che impregna le parole della canzone che ha stravinto il 68° Festival di Sanremo (di Meta, Moro e Febo), emerge con tutta la sua drammatica forza, mentre la guerra di tutti contro tutti in Siria è ripresa ancora più ipocrita e arrogante di prima con il suo penoso corteo di morti, feriti, sfollati e profughi: «Ma contro ogni terrore che ostacola il cammino, il mondo si rialza col sorriso di un bambino. Non mi avete fatto niente, non avete avuto niente perché tutto va oltre le vostre inutili guerre».
Oltre al dolore per chi non c’è più (e ogni giorno la lista dei nomi si allunga), rabbia e frustrazione insorgono per le condizioni in cui sono costretti a vivere coloro che si rifugiano dove possono, lontano dalle bombe e dalle persecuzioni. Tra i Paesi dell’area, Libano e Giordania sono quelli più a rischio di fronte al gran numero di profughi siriani che vi trovano rifugio, provocando naturalmente enormi problemi anche alla popolazione residente, che fino ad ora è comunque riuscita in qualche modo a reggere l’impatto grazie agli aiuti internazionali, per quanto insufficienti. Ma come continuare? E fino a quando?
Il primo ministro giordano, Hani Mulki, di fronte ai rifugiati siriani che affollano il regno hascemita, ha commentato: «Dopo sette anni, le possibilità di un ritorno dei siriani nel loro Paese rimangono scarse. Anche nel caso di una soluzione pacifica, ci vorranno anni per ricostruire la Siria e rimandare a casa i rifugiati». La Giordania è un piccolo Paese di 90mila kmq (meno di un terzo dell’Italia), 80% dei quali desertici, che ospita in qualche modo ben più di 3 milioni di profughi di antica e recente diaspora: oltre 2 milioni sono i profughi palestinesi del 1948 e i loro discendenti, e quasi 1milione e mezzo i siriani fuggiti dalla guerra (di cui solo 660 mila registrati, e fra loro il 51% sono minori) che hanno trovato rifugio in Giordania. Degli attuali 9,5 milioni di cittadini con regolare passaporto giordano, solo il 55% si possono considerare in qualche modo originari del Paese, mentre il 40% sono di origine palestinese e il 5% sono di origine armena, circassa e cecena, vale a dire alcuni pronipoti dei rifugiati arrivati qui alla fine del XIX secolo e nei primi vent’anni del XX.
Quando il regno hascemita fu costituito negli anni 20 del XX secolo, meno di 100 anni fa, aveva forse 200 mila abitanti, che sono diventati 450 mila nel 1947: non si trattava di però di un boom demografico ma era già allora un afflusso di profughi. Nel 1952, quando re Hussein salì al trono di Giordania, il Paese aveva 1,3 milioni di abitanti, divenuti 4 milioni nel 1994 e oltre 6 milioni entro il 2010. L’ondata di profughi siriani affluita qui dopo il 2011 si inserisce su queste pesanti premesse.
Naturalmente non tutti i profughi siriani vivono nei campi, anzi se possibile cercano altre soluzioni abitative, per quanto povere e precarie, nelle città giordane. Vivere in un campo come quello di Zaatari (non lontano dalla tormentata area di Daraa, a 13 Km dal confine siriano) insieme ad altre 70-100 mila persone non è certo facile: la zona è arida e qualsiasi lavoro una difficile conquista per i pochi che riescono a trovarlo. Il fabbisogno d’acqua è di 3 milioni di litri al giorno, assicurato da una colonna di un’ottantina di camion che fanno la spola dai pozzi ai serbatoi del campo. A Zaatari nascono almeno 10 bambini al giorno e ci sono 9 scuole per 18-20 mila alunni. Altri campi simili, di poco più piccoli, si trovano ad Azraq e sul confine di Hadalat e Rukban.
In questi giorni il governo giordano ha chiesto aiuti alla comunità internazionale per 7,3 miliardi di dollari per far fronte alle necessità dei rifugiati siriani nei prossimi tre anni, ben sapendo che i contributi internazionali ricevuti negli anni scorsi hanno coperto a fatica il 65% dei bisogni.
La Giordania è anche di fronte al grave problema del progressivo esaurimento delle poche risorse idriche, del grande numero di bambini che non vanno a scuola per lavorare (come segnala Unicef), delle forti tensioni sociali per un mercato del lavoro inflazionato da un’enorme offerta a bassissimo costo, dagli affitti alle stelle, dall’inadeguatezza del sistema sanitario e dal costo sempre più alto dei beni di prima necessità e delle materie prime. Eppure, anche grazie ad una famiglia reale attiva ed amatissima, in Giordania ogni giorno la gente non si arrende, si ingegna, cerca, inventa, accoglie, aiuta, spera.
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