6 dicembre 2017
 
Trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv alla Città Santa per eccellenza? Tale sembra essere il progetto del presidente statunitense. Le reazioni dei Paesi Arabi e degli europei non si sono fatte attendere

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Ci si chiede se Donald Trump sia un improvvisatore o un cinico pianificatore. I suoi tweet micidiali, le sue dichiarazioni pubbliche che sorprendono persino i suoi più stretti collaboratori, la sua smania di sorprendere sono sotto gli occhi di tutti. Ma la dichiarazione di voler presto trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme non deve sorprendere. Fa parte della chiara strategia del presidente Usa in Medio Oriente, una strategia che ormai appare chiara: privilegiare i rapporti con Arabia Saudita e Israele, e in seconda battuta con l’Egitto, che demonizza l’Iran e i suoi alleati (dalla Siria di Assad all’Iraq, al Qatar), che guarda con grande sospetto i “neutrali” come il Libano e la Giordania, che in ogni caso vuole un minor impegno finanziario e logistico statunitense nella regione, privilegiando i blitz alle occupazioni (il recente ritiro di cento marines da Raqqa fa parte di questa strategia).

Ma questa politica sta da una parte accrescendo l’astio contro gli Stati Uniti nella regione, dopo alcune speranze iniziali, e dall’altra sta togliendo credibilità agli Stati Uniti come primi negoziatori e pacificatori della regione. Così il trasferimento dell’ambasciata (non si sa ancora se alla dichiarazione seguirà un vero trasloco) sarebbe interpretato come un riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato d’Israele. Una dichiarazione senza trasloco avrebbe indubbiamente minori conseguenze sulla regione, aggiungendosi alle tante dichiarazioni d’intenti di Trump che poi non hanno avuto seguito.

E come reagiranno le capitali degli altri Stati Arabi? Abou Mazen, il palestinese direttamente interessato alla decisione, s’è rivolto al papa, sperando che possa intercedere per la causa palestinese, ma con poche speranze immediate. Mentre i duri di Hamas hanno chiesto di lanciare una nuova intifada se Trump riconoscerà Gerusalemme come capitale d’Israele. Ha parlato pure il leader della Lega Araba, Ahmed Aboul Gheit, il quale ha paventato la crescita di «fanatismo e violenza». Bisogna vedere come reagiranno gli altri protagonisti della vicenda mediorientale, Arabia Saudita in testa, sempre più vicina agli Stati Uniti e pure a Israele: il re Salman ha parlato di «un passo pericoloso» che rischia di scatenare «la collera dei musulmani», ma bisogna attendere le parole dell’uomo forte di Riad, il figlio del re Muhammad bin Salman. Giordania, Turchia ed Egitto hanno sottolineato le conseguenze nefaste e le reazioni musulmane incontrollabili che tale decisione potrà scatenare. Gli europei paiono compatti nella condanna della decisione di Trump, ma hanno poco peso nella faccenda.

Quel che più preoccupa, tuttavia, non è tanto la decisione in sé, che porterà in ogni caso a proteste e dichiarazioni preoccupate da parte del mondo arabo, quanto il deliberato desiderio di Trump di mettere ordine nei più complicati conflitti mondiali con semplici decisioni unilaterali, mettendo da parte diplomatici (noti gli attriti con il suo segretario di Stato Tillerson), militari (spesso Trump prende in contropiede gli stessi suoi generali), studiosi (la spocchia di The Donald verso gli intellettuali è nota) e personalità religiose (le più impegnate per la pace), persone e istituzioni che dal 1968 – anzi, dal 1948 –, stanno cercando una soluzione all’aggrovigliato caso israelo-palestinese.

Così facendo Trump sembra tradire la vocazione più profonda della democrazia statunitense, quella che Alexis de Tocqueville aveva definito la «bontà» degli Stati Uniti, che avrebbe permesso ai popoli del mondo di «apprezzare e seguire l’America».