La “Marcia del ritorno”, cioè la memoria della cacciata dei palestinesi dai territori che dovevano costituire il nuovo Stato di Israele, e la volontà di tornare alle proprie terre da parte delle popolazioni palestinesi, ha assunto dimensioni e carattere drammatici in coincidenza con il 70° anniversario della Nakba e con l’apertura della nuova ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, che ha traslocato dalla tradizionale sede di Tel Aviv. Hanno creato non poco imbarazzo nell’opinione pubblica mondiale le immagini sporche di sangue della strage che stava avvenendo a Gaza accanto a quelle patinate e glamour della figlia di Trump Ivanka che scopriva la lapide della nuova sede diplomatica a stelle e strisce. Con i commenti di Trump e Netanyahu battuti dalle agenzie o rilanciati da Twitter che ignoravano completamente la tragedia che in quei momenti si stava perpetrando tra i palestinesi di Gaza impallinati dai soldati israeliani, esaltando solo la grandezza e la storicità della giornata che si stava vivendo.
Viviamo un tempo di schizofrenia, anzi di schizofrenie, cinque per l’esattezza. Questa potrebbe essere la diagnosi della situazione che si sta vivendo in Palestina e Israele: un attacco di schizofrenia multipla, cioè la scissione nella stessa persona, nello stesso corpo sociale, di due diverse personalità.
Inutile dirlo, ebrei e palestinesi sono per certi versi simili: diceva il rabbino Léon Ashkenazy, nato in Algeria, vissuto in Francia e morto in Israele, soprannominato Manitù, che «un buon ebreo e un buon musulmano si assomigliano come due gocce d’acqua» (debbo questa citazione a Moni Ovadia). Nel senso che il lato migliore di ebrei e musulmani li avvicina. Nel momento in cui danno invece spazio alle loro forze più basse, ecco che si azzannano. Sono simili, a ben guardare, anche perché ambiscono alla medesima terra «di pietre e di sassi», oltre che «di latte e di miele». La politica degli ultimi ottant’anni li ha divisi. La schizofrenia è quindi innanzitutto presente nella divisione profondissima tra i due popoli simili, divisione che ha sparso e continua a spargere le sue tossine in tutto il Medio Oriente.
Qui in Libano, in coincidenza con la tragedia del 1948 in Terra Santa, si è appena commemorato il settantesimo anniversario della nascita dei campi profughi palestinesi, che sono ancora “precariamente” in piedi e che vengono sopportati dalla popolazione locale, visto che la presenza palestinese ha contribuito non poco alle guerre degli anni Settanta e Ottanta. Ecco allora una seconda schizofrenia, quella del mondo arabo che ha dovuto accogliere milioni di palestinesi, pensiamo solo alla Giordania, all’Egitto e al Libano, ma che non è riuscito mai a integrarli completamente nei loro territori. Quindi una seconda schizofrenia è quella che separa il mondo arabo dal mondo palestinese. Le accuse rivolte al primo di aver abbandonato il secondo si fanno sempre più insistenti.
Ciò è avvenuto anche perché la popolazione palestinese è stata tramortita da lotte politiche interne, di cui la rivalità tra Fatah e Hamas è solo l’ultimo tassello del mosaico. La terza schizofrenia è così quella che colpisce i Territori palestinesi. Inutile negare come la rivalità tra Fatah, la fazione che fu di Yasser Arafat e ora di Mahmud Abbas, detto Abu Mazen, e Hamas, il movimento di resistenza e liberazione radicale che ha il suo quartier generale proprio nella Striscia di Gaza, sia stata e sia un cancro per la causa palestinese. Arrivando a permettere che l’Iran stesso, cioè il campo sciita, appoggiasse le azioni politiche di Hamas, considerata organizzazione terrorista da Israele, Stati Uniti e dai loro alleati, e resistenti da parte di Russia, Turchia e alleati vari.
C’è poi una quarta schizofrenia tutta interna ad Israele, ed è quella che oppone (e qui semplifico in modo forse eccessivo) una maggioranza ormai stabilizzata di “belligeranti” (il generale Sharon, poi Zipi Livni, quindi Netanyahu, ma non Yitzhak Rabin), maggioranza stabilizzatasi grazie alle massicce immigrazioni dai Paesi dell’Est di ebrei della diaspora in massima parte ortodossi, e che conta sulla politica (intollerabile) dell’infiltrazione progressiva degli insediamenti ebraici in quella che era stata la Terra dei palestinesi anche dopo la guerra del 1967; e una minoranza di “accomodanti” (di cui Shimon Peres è stato il rappresentante più autorevole) che vorrebbe invece risolvere la questione palestinese con la diplomazia, appoggiando l’idea di “due popoli due Stati”, e che non accetta l’idea che un Paese in guerra costante attiri gli aiuti internazionali, di cui Israele ha sommo bisogno, molto più di un Paese pacificato.
La quinta schizofrenia è invece diffusa in tutta l’infosfera, cioè nell’opinione pubblica mondiale. È quella manichea di voler vedere tutto il male in Israele o, al contrario, tutta la responsabilità nel popolo palestinese. Lo sappiamo, uno dei mali del mondo dei social è la “polarizzazione”: il caso israelo-palestinese ne è uno degli esempi più evidenti. È una patologia grave anche questa, forse la peggiore, perché perpetua le divisioni, scava ulteriormente il fossato dell’incomprensione, lavora per accentuare gli effetti delle altre quattro precedenti schizofrenie.
Servirebbero dottori capaci al capezzale del malato israelo-palestinese. Servirebbero psichiatri che sapessero curare le cinque schizofrenie. Teoricamente questi medici sono seduti sugli scranni delle Nazioni Unite, ma i veti incrociati bloccano ogni possibile diagnosi, ogni prognosi e quindi ogni cura. La società civile, sia israeliana che palestinese che internazionale, ha cercato e cerca di risolvere nel concreto il problema della convivenza – sono in effetti migliaia le iniziative che cercano di “mettere assieme” palestinesi e israeliani, dalla cura delle vittime allo sport, dalla musica all’assistenza sanitaria… –, ma senza la politica i risultati sono ancora grami.
Diavolo è parola che viene dal greco dia-ballo, cioè divido. Simbolo, al contrario, viene da sun-ballo, unisco, metto assieme i pezzi. In questo senso si può dire che la questione israelo-palestinese è realmente diabolica. Si cercano forze che rendano possibile il sun-bolon, il simbolo della pace.
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