Da “unione” a “unità nella diversità”
di Letizia De Torre
Il 60° dei Trattati di Roma è l’occasione per un salto di qualità del progetto europeo. Occorre passare dal concetto di “unione” a quello di “unità”, che sa contenere le diversità. Essere rassicurati sulla propria identità dà la libertà di sentirsi anche cittadini di una realtà più vasta. Un’Europa con relazione politiche fraterne tra Stato e Stato, può essere ancora interessante e feconda per il resto del mondo.
I Trattati di Roma – sottoscritti il 25 aprile 1957 in Campidoglio da Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi – nascevano dal fallimento di un altro progetto del 1954, la Comunità europea di difesa. Quella mancata adesione avrebbe potuto segnare una battuta d’arresto della Comunità europea. Ed invece no. Si seppe aggiustare la rotta, non senza fatica, dando corpo alla Comunità economica europea (Cee).
In quegli anni ’50 la determinazione a non ripiombare nell’abisso della guerra era molto alta e, di conseguenza, altrettanto alta era la determinazione a dare successo al progetto europeo. Oggi, disorientati dalle pecche della globalizzazione e da brandelli quotidiani di guerra e di terrorismo nel mondo, incapaci di riconoscere e valorizzare i 70 anni di pace in Europa, abbiamo poco o nulla dello slancio che servirebbe. Percepiamo e subiamo solo battute d’arresto: le pastoie della tecnocrazia, la mancata Costituzione europea per ragioni non europee, l’euro-ossessione, l’imbarazzo della Brexit, la corsa a costruire muri, simbolo, questi ultimi, dei fantasmi e dell’estrema debolezza politica. Mancanza di sogno e di aspirazione alla pace che attanagliano quello che resta del cammino dell’Unione europea.
Il 25 aprile 2017 i Capi di Stato e di Governo dei 27, ne discuteranno. Sanno che la criticità del momento “esige una riflessione più profonda e concreta sulle sfide che l’Unione è chiamata a raccogliere a breve e a medio termine”[1]. Ma gli obbiettivi non possono essere solo quelli enunciati nella riunione preliminare di Bratislava: controllo delle migrazioni, sicurezza, sviluppo economico. Nè giova lo spauracchio della Cina, del terrorismo, delle xenofobie o della implosione dei valori democratici.
Certo, può essere utile una nuova tabella di marcia che prevede velocità diverse di integrazione per esigenze diverse dei Paesi dell’Unione (con attenzione, però, alla trasparenza da parte di tutti). Ma oggi non basta più (ammesso che queste cose si vogliano) né rafforzare la democrazia europea (più poteri al Parlamento europeo, elezioni effettivamente su scala europea ecc.), né solamente insistere su politiche comuni (pur così doverose, come comuni politiche migratorie, finanziarie o di sicurezza).
Siamo tutti consapevoli che occorre, innanzitutto, una nuova visione. Un progetto politico non ordinario, ma straordinario. In questo nuovo secolo “liquido”, turbolento e instabile, infatti, è compito specifico della politica generare un balzo in avanti per l’umanità.
Nel 1993, a significare che da una comunità economica passavamo a fare politiche comuni, il Trattato di Maastricht determinò il salto da “Comunità” a ”Unione”. Anche adesso occorre una nuova “discontinuità con salto”, come si dice dei grafici che si interrompono e nello stesso istante riprendono ad una quota più alta.
Per compiere oggi quel salto, per riprendere ad una quota più alta, dovremmo passare dal concetto di “unione” a quello di “unità”. Molti autori[2] ritengono che questo sia un passo da compiere di dimensione epocale e che possa generare un nuovo umanesimo nel tempo della globalizzazione.
L’unione, infatti, è un blocco regolamentato in modo centrale e preciso. L’unità é contemporaneamente unione e distinzione. L’unità contiene il molteplice, è fatta di relazioni tra realtà che si riconoscono distinte e si apprezzano al punto di voler gettare ponti e tessere reti.
La “discontinuità con salto” dovrebbe, dunque, vedere la UE di-smettere quella veste oggi sgradita, percepita burocratica e centralista, e rimodellarsi sul proprio motto: “unità nella diversità”. Motto che non può riguardare solo le lingue, le tradizioni e le fedi, ma sopratutto un nuovo patto che ci leghi e che produca un nuovo originale assetto istituzionale.
Come accade tra le persone quando il rispetto dell’altro fa crescere la fiducia, così potrebbe accadere tra Paese e Paese, con la propensione ad agire verso l’altro Paese come vorremmo agissero verso il nostro. Questo obbiettivo è politicamente ambizioso, qualcuno potrebbe dire ingenuo. Ma sarebbe anche ingenuo dimenticare che quello dell’umanità è un cammino, una evoluzione culturale ed antropologica che la porta, tappa dopo tappa, nei fatti anche scientifici e tecnici, ad essere via via sempre di più una “unica umanità”.
Il Movimento politico per l’unità ispira i propri obiettivi e i propri passi sull’idea dell’unità così come emergeva proprio negli stessi anni in cui nasceva la Comunità europea. Scriveva rivoluzionariamente Chiara Lubich a Trento pochi anni dopo la fine degli orrori della Seconda Guerra mondiale: “se un giorno i popoli sapranno posporre loro stessi, l’idea che essi hanno della propria patria … per quell’amore reciproco fra gli Stati che Dio domanda come domanda l’amore reciproco fra i fratelli, quel giorno sarà l’inizio di una nuova era”[3].
E’ una scelta eminentemente politica quella di riconoscere e di stimare l’autonomia dell’altro Paese, di rapportarvisi positivamente e di agire per un bene che superi i singoli Stati. E’ una scelta concreta poiché non lascia posto, ad esempio, per un surplus commerciale che mette in difficoltà tutti gli altri o non concepisce uno sbarramento che lascia il fardello oltre il tuo confine.
I Paesi dell’Unione europea hanno bisogno di ritrovare la forza di compiere tali scelte. Per far cadere paure, populismi e nazionalismi non servono discorsi repressivi. Occorre ritrovare la libertà di sentirsi polacchi, olandesi, portoghesi … per dichiararsi anche europei. Occorre essere rassicurati sulla propria identità per essere aperti ad una identità più vasta, continentale Per questo motivo un assetto europeo che non annulli le caratteristiche proprie, ma le sappia contenere in una patria più grande che è l’Europa, può essere vincente e può dare inizio ad un nuovo cammino politico e istituzionale dell’Europa.
Sullo scenario mondiale è evidente – salvo crescente insignificanza – che serve vera unità europea. E ciò vuol dire essere rappresentati effettivamente come unica entità politica all’ONU, promuovere iniziative europee di dialogo per sanare i conflitti, agire come unico interlocutore per governare enormi fenomeni sovranazionali, quali la finanza e così via.
Nella nostra governance interna possiamo, invece, continuamente e dinamicamente unire e distinguere, senza mai tradire l’Europa, ma sapendo sviluppare ricchezze particolari dei propri popoli, della propria minoranza, dei territori, delle singole città.
Perderebbero peso in tale assetto, le ‘normative’ europee, e ne assumerebbero molto le relazioni tra Stato e Stato, tra minoranza e minoranza, tra città e città. Cadrebbe la visione di una unicità fatta di normative tecniche. Non perché non servano, anzi! , ma perché devono essere conseguenza della solidarietà tra popoli e non, viceversa, paletti per farci marciare uguali, ma poco fratelli.
Senza questo dinamismo l’Europa si dissolve. Con tale dinamismo, al contrario, l’Europa ha la possibilità di svilupparsi come un poliedro a infinite facce che si rinnovano continuamente. Un’Europa interessante e feconda per il resto del mondo.
In altre parole, giriamo sempre di più in Europa con un’unica moneta, un unico tipo di presa elettrica, un unico standard ambientale, un’unica laurea. Ma coltiviamo l’identità positiva e arricchiamoci ogni giorno della poliedrica cultura europea, delle bellezze culturali e valoriali delle nostre città e dei nostri popoli. Comprendiamone la Storia, le novità, le ferite. Questa ricchezza data ed accolta, queste fatiche condivise e comprese, questa “unità nella diversità” – praticata correttamente – non ha paura di accogliere l’altro. Una buona volta si potrebbe mettere fine agli infiniti e sterili diverbi tra Nord e Sud, tra Est e Ovest; tra chi è autoctono e chi è cittadino recente, uscendo da questa paralisi davanti le migrazioni.
Se riuscissimo, inoltre, a dismettere un eurocentrismo decadente e pesante e a guardare, invece, il mondo dal mondo; se riuscissimo a entrare nelle fratture della globalizzazione per sanarle; se riuscissimo a offrire valori e pensiero per un nuovo umanesimo…, potremmo mettere con più umiltà e autenticità questi nostri primi 70 anni a disposizione dell’intera comunità umana.
In particolare applicare politicamente e istituzionalmente l’”unità nella diversità” può porre oggi l’Europa al centro dei dibattiti e dei processi di collaborazione tra i Paesi di altri continenti (Mercosur, Unione Africana, Asean, ecc.). Può continuare a garantire una pace intesa in Europa non solo come assenza di guerra, ma come conquiste collettive di governance, welfare, empowerment, prosperità, sostenibilità, solidarietà interna ed internazionale. E può farci diffusori – indipendenti e attivi sullo scacchiere internazionale – di tale pregnante concetto di pace.
Offrire questa esperienza di convivenza non è per la UE solo un dovere (ancora poco praticato). L’ “unità nella diversità” – pur all’inizio della sua realizzazione – é per l’Europa il grande valore vissuto insieme da quando ci possiamo chiamare europei. Esserne coerenti col resto del mondo ci può fare un unico popolo molto più di qualsiasi norma o politica comune.
[1] Donald Tusk, lettera di invito ai Capi di Stato e di Governo per il 60° dei Trattati di Roma.
[2] Bartolomeo I, 26.10.15, IU Sophia; Francesco, messaggio a Together for Europe, 2.7.16; J. Moran, Fedeltà creativa, Città Nuova, 2016.
[3] Chiara Lubich, discorso, 1959.
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