di Romano Prodi
Alla domanda volutamente provocatoria, anche se fondata su elementi non banali, si può dare una prima risposta. Una risposta che può sembrare paradossale ma, invece, comprovata dai fatti: le enormi difficoltà di fronte alle quali la Gran Bretagna si trova per mettere in atto le conseguenze del referendum sulla Brexit dimostrano che l’Europa è troppo robusta per andare a pezzi. Dopo il risultato del referendum britannico avevo previsto una trattativa di uscita con una Gran Bretagna unita di fronte ad un’Europa divisa. Ci siamo invece trovati di fronte ad uno scenario del tutto opposto: un’Unione Europea divenuta improvvisamente compatta di fronte a una Gran Bretagna che si è frammentata in mille pezzi, entrando in una delle peggiori crisi della sua recente storia.
Questo non significa che l’Unione se la passi bene ma ormai il processo di integrazione è andato così avanti da rendere drammaticamente difficile l’uscita anche per l’unico paese che di eccezioni all’integrazione ne aveva ottenute più di ogni altro e che, inoltre, pensava di potere disporre di un’alternativa all’Europa attraverso la robusta stampella americana.
La realtà invece dimostra che, quando si prospetta una concreta ipotesi di divorzio, ci si rende improvvisamente conto della conseguente perdita degli enormi vantaggi che l’Unione ha reso possibili, pur con i suoi ben noti limiti. Sebbene l’armonizzazione delle politiche economiche e sociali sia stata lenta, complessa e spesso al di sotto delle aspettative, si è arrivati all’assurdo per cui in tutti i paesi cresce l’insoddisfazione nei confronti dell’Unione Europea ma, quando si arriva al dunque, la grande maggioranza degli europei pensa che sia meglio restare insieme. C’è chi lo fa per convinzione, c’è chi lo fa per convenienza ma la prospettiva di uscita dall’Unione non si spinge molto avanti. In fondo lo abbiamo visto anche in Italia: le feroci dichiarazioni antieuropee si sono trasformate in critiche sui singoli capitoli e gli insulti hanno ceduto spazio alle mediazioni.
Ciò non dimostra affatto che le cose vadano bene. Tutt’altro! Per diversi motivi Germania, Francia, Italia e Spagna sono in profonda crisi. Dopo le grandi decisioni sul mercato unico, sull’allargamento e sull’Euro, siamo entrati in un periodo storico nel quale il prevalere delle politiche nazionali su quelle comunitarie ha progressivamente marginalizzato il ruolo della Commissione esaltando quello del Consiglio che, essendo la sede della rappresentanza degli Stati, non può che trasferire la responsabilità delle decisioni nelle mani degli Stati più forti. Di qui la politica dell’austerità che tanto ha contribuito a dividere i diversi protagonisti della politica europea e ha incoraggiato decisioni dettate più dalla volontà dei singoli paesi che dall’interesse generale.
Oggi, di fronte ai cittadini europei, si presenta quindi un’Unione incapace di grandi decisioni e senza un progetto per il futuro.
Dell’inno alla Gioia, che aveva accompagnato il successo elettorale di Macron e che sembrava trasformare una vittoria domestica in un progetto continentale, è rimasta solo la musica. La frammentazione della politica tedesca e le quotidiane contraddizioni italiane hanno reso ancora più evidente la paralisi decisionale di Bruxelles. Se l’Europa quindi non va a pezzi è perché tutti hanno paura di essere colpiti dagli stessi suoi pezzi. È tuttavia evidente che, andando avanti come nel recente passato, l’Unione Europea può morire di inedia.
Esiste poi l’eventualità di incidenti, soprattutto nel campo economico e finanziario. Se tali incidenti avvengono in paesi di dimensione modesta come la Grecia si può trovare un faticoso ma possibile rimedio, anche se a caro prezzo. Se invece accadono in un paese grande come l’Italia, l’Europa di oggi non è certo in grado di adottare i necessari rimedi. Tuttavia, anche scartando quest’ipotesi, l’Unione non può soddisfare i suoi cittadini continuando a vivacchiare.
Di solito quando le strutture democratiche si trovano di fronte a una crisi cercano rimedio nelle elezioni. Nel caso europeo le elezioni sono già in programma. Resta solo da utilizzarle per una battaglia politica europea e non per misurarsi sui problemi interni ai singoli paesi.
Nonostante i diffusi allarmi, i partiti antieuropei, pur in crescita, sono oggi una minoranza. Il Partito Popolare Europeo, pur non scostandosi dalla sua tradizionale linea europea, si sta spostando a destra candidando Weber. Esso conserverà nelle sue file Orbán e costituirà una calamita sempre più forte (e presto irresistibile) anche nei confronti della Lega di Salvini. Se liberali, socialisti e verdi dimostreranno un minimo di intelligenza politica presentendo un candidato unitario per la presidenza della Commissione e per le alte cariche europee si potrà dare vita ad una vera sfida a livello europeo, risvegliando l’attenzione e l’interesse di tutti i cittadini dell’Unione. Non è ovviamente necessario che questi partiti si fondano o perdano la propria identità. Ormai in quasi tutti i paesi europei i governi non si formano più con un solo partito ma con coalizioni (a volte complicate) di partiti che, fatta eccezione per l’Italia, condividono la stessa direzione di marcia.
Se si vuole avvicinare di nuovo i cittadini all’Europa gli obiettivi condivisi debbono però essere chiari, semplici e di grande rilievo.
Nell’Unione di oggi tre sono gli obiettivi fondamentali. Il primo è il completamento della politica monetaria con regole comuni per una progressiva armonizzazione delle politiche di bilancio. Nessuno può chiedere che gli Stati più prosperi prestino soccorso agli altri ma tutti debbono chiedere che si costruiscano almeno regole che tengano conto degli andamenti del ciclo economico e rendano possibile il necessario processo di armonizzazione nel lungo periodo. Il secondo obiettivo deve essere l’esercito europeo, la cui necessità è resa più evidente dalla richiesta americana affinché l’Europa provveda sostanziosamente alla propria difesa. Compito che non può essere affidato ai singoli stati. Il terzo obiettivo è una politica industriale e dell’ambiente volta all’innovazione e alla creazione di imprese europee capaci di essere protagoniste anche nei settori ora dominati da americani e cinesi.
Con una battaglia politica su questi tre temi si ricomporranno tutti i “pezzi” della politica europea e si darà speranza a tutti coloro che ora hanno paura per il proprio futuro e per il futuro delle nuove generazioni. Solo la politica, ma una politica alta e con grandi obiettivi, può impedire che l’Europa finisca davvero in pezzi.
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