«Finché sarò presidente degli Stati Uniti, all’Iran non sarà mai permesso di avere un’arma nucleare». Le parole d’apertura del discorso alla nazione con cui il presidente Trump avrebbe spiegato gli esiti del bombardamento iraniano su due basi militari statunitensi in Iraq, non facevano presagire niente di buono e ci si aspettava l’ennesima retorica atipica e infuocata dei suoi tweet. E invece, a sorpresa, dopo aver declamato il successo dell’operazione con cui un drone ha ucciso il generale Qasem Soleimani, capo della Quds Force (definito a più riprese “terrorista”) e che nel bombardamento in rappresaglia non c’erano vittime statunitensi, il Commander in chief ha teso la mano all’Iran, invitandolo addirittura a «lavorare insieme sulla distruzione dell’Isis e su altre priorità condivise».
E ha aggiunto, con toni inaspettatamente moderati, che sia il popolo iraniano che i suoi leader meritano «un grande futuro sia in patria che in armonia con le altre nazioni del mondo». Tuttavia, ha annunciato di voler inasprire le sanzioni e che il trattato nucleare, sostenuto da Obama e da altri Paesi europei, va riscritto: come già per altri negoziati, il presidente ha l’urgenza di smarcarsi dai suoi predecessori. Trump vuole che il nuovo accordo non solo «renda il mondo più sicuro, ma consenta all’Iran di prosperare come un grande Paese».
I toni conciliatori si alternano alle minacce di dispiegamento di nuovi missili, che compiacciono i finanziatori della sua campagna elettorale, mentre al contempo rassicura di non volerli usare, per rafforzare il suo elettorato ostile ai conflitti in cui i precedenti presidenti hanno intrappolato gli States. «Gli Stati Uniti sono pronti ad abbracciare la pace con tutti coloro che la cercano», precisa Trump chiamando in causa anche la Nato nel processo di pace in Medioriente, dopo mesi di acerrime critiche e tagli sostanziosi ai finanziamenti e alle forniture militari.
Cosa è accaduto ai toni intimidatori seguiti alle acerrime dichiarazioni di vendetta da parte del leader iraniano Khamenei, a seguito dell’uccisione di Soleimani? Cosa bisogna leggere dietro le retoriche di questi due numeri uno che hanno infiammato con le parole media e popoli e ora sembrano orientarsi su più miti terreni? Il presidente Trump si trova a fare i conti con le conseguenze di una scelta strategica per alcuni analisti, ma avventata nei tempi e nelle modalità secondo altri consiglieri.
I primi conti da regolare sono con il congresso. Stamani Nancy Pelosi, portavoce della Camera, chiederà ai deputati di votare misure che limitino il potere del presidente di dichiarare guerra. E alcuni repubblicani hanno già dichiarato di sostenere la misura, poiché non aver consultato i massimi organi di Camera e Senato e le commissioni competenti prima di colpire il generale iraniano manca di giustificazione legale e strategica e il presidente ha 30 giorni di tempo per cessare qualunque attività militare in Iran senza autorizzazione del Congresso, che già lo scorso anno aveva varato una legislazione contraria al conflitto.
Cruciale e complessa è anche la questione della sicurezza. La Repubblica islamica può usare le sue forze rivoluzionarie in Afghanistan, Iraq, Libano, Siria e Yemen per attaccare gli Stati Uniti e i suoi alleati. Ha un arsenale di missili balistici che può colpire le basi statunitensi in Bahrain, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Le sue mine e i missili terrestri possono provocare il caos nello stretto di Hormuz e aumentare i prezzi globali del petrolio, che non serve agli Stati Uniti, ma metterebbe in ginocchio gli alleati tra gli cui gli stessi sauditi. A questo vanno aggiunti i sabotaggi e gli attacchi informatici, che renderebbero vulnerabili dati, sistemi bancari e finanziari, telefonia e difesa. Non si escludono gli attentati, anche se fino ad oggi quelli su territorio statunitense sono sempre stati sventati, mentre non può dirsi lo stesso all’estero.
Gli alleati all’estero. La violazione estrema della sovranità irachena, con un’azione militare compiuta senza il consenso del governo, potrebbe trasformarsi nell’espulsione degli Usa dal Paese, che non sono amati al pari dell’Iran, ma la popolazione non vuole finire in mezzo a un conflitto in cui sarebbero i civili ad avere la peggio. A Trump non piace lavorare con altri Paesi, ma rievocare la Nato significa che non può evitarlo, soprattutto adesso perché necessita anche dell’alleanza russa e cinese per condividere informazioni su potenziali attacchi e per sostenere le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, qualora l’Iran continuasse la realizzazione della bomba atomica.
Anche l’Iran si trova a fare i conti con valutazioni errate. Distratto dalla controversia interna sulla repressione delle proteste in patria contro il carovita, e sicuri delle posizioni offensive raggiunte nella regione, non immaginavano che Trump, intrappolato nell’impeachment e senza una chiara politica estera, potesse autorizzare un attacco. E lo stesso Soleimani non aveva preso le precauzioni adeguate alla sua posizione e si sentiva quanto mai al sicuro: aveva viaggiato in un aereo di linea per raggiungere Baghdad e non poteva immaginare che la tensione con gli Usa portasse all’azione. Da quando nel maggio 2018 Trump ha lasciato l’accordo sul nucleare e inasprito le sanzioni, Teheran ha cercato di ottenere benefici da altri alleati, tentando di isolare diplomaticamente gli Usa. Da maggio 2019 invece ci sono stati attacchi iraniani contro spedizioni internazionali. È stato poi abbattuto un drone statunitense e in settembre missili iraniani hanno colpito l’impianto di Abqaiq in Arabia Saudita, mentre milizie sciite hanno iniziato a lanciare razzi nelle basi statunitensi in Iraq, uccidendo un contractor statunitense la scorsa settimana. E ultimo il raid in ritorsione all’assassinio del generale.
Questi errori di calcolo da ambo le parti dovrebbero mettere a tacere la retorica e riaprire lo spazio alla diplomazia, anche se da 40 anni ogni canale di comunicazione è stato chiuso. E l’Onu o l’UE potrebbero fungere da mediatori in un tempo in cui servono parole di pace e non di fuoco.
Ha collaborato Jade Giacobbe
(Sull’argomento leggi anche Quel pasticciaccio brutto di Baghdad)
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