di Roberto Catalano

fonte: Città Nuova

 

La campagna elettorale in corso. L’appello di Aung San Suu Kyi e la speranza di un vero cambiamento dopo anni di asfissiante dittatura militare. Il problema della frangia estremista del buddhismo theravadabirmano.

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Il prossimo 8 novembre il Myanmar vivrà un momento che ci si augura possa rappresentare una svolta nella storia del Paese. Oltre 30 milioni di cittadini si recheranno alle urne per le elezioni che dovrebbero rappresentare “un vero cambiamento politico ed amministrativo” per usare le parole della signora Aung San Suu Kyi, leader storica e carismatica dell’opposizione al potere militare che da decenni controlla il Paese con pugno di ferro. Proprio la Aung San Suu Kyi ha lanciato la campagna elettorale con un messaggio sui social chiedendo, fra l’altro, alla comunità internazionale di vigilare affinché le elezioni si possano svolgere in maniera libera e veramente democratica.
 
La signora come è ormai popolarmente riconosciuta, premio Nobel per la pace nel 1991, ha scelto la sua pagina Facebook per inviare un messaggio ufficiale in inglese che potesse essere colto dai suoi connazionali (a cui ha rivolto poi un testo in lingua locale), ma anche dall’opinione pubblica internazionale. Nel videomessaggio Aung San Suu Kyi sottolinea che il voto dell’8 novembre è un “crocevia” per la storia del Myanmar. «Per la prima volta in decenni – aggiunge – il nostro popolo avrà davvero la possibilità di portare un vero cambiamento. Questa è una chance che non dobbiamo farci sfuggire».
 
Figlia di colui che è considerato il padre del Myanmar indipendente (l’antica Birmania), Aung San Suu Kyi perse il padre all’età di due anni, appena il Paese riuscì ad ottenere l’affrancamento dal colonialismo britannico. Ucciso da un avversario politico, il leader lasciò alla moglie una eredità politica e alla piccola figlia un’indole indomita che negli anni l’ha portata ad essere immagine dell’opposizione al regime cha tenuto il Paese asiatico bloccato per decenni, sia nel processo economico che nelle più elementari norme di libertà individuale e sociale.
 
Dopo il suo ritorno nel 1988, accolta in modo trionfale, la leader birmana ha dovuto affrontare anni di arresti domiciliari e umiliazioni di ogni tipo. Per impedirle di diventare presidente è stata approvata una nuova Carta Costituzionale che vieta a chi ha qualsiasi legame di parentela con stranieri di accedere a questa carica. La Aung San Suu Kyi era, infatti, sposata con un inglese conosciuto a New York quando prestava servizio presso le Nazioni Unite dopo aver completato i suoi studi ad Oxford.
 
Nel Paese si respira aria di grande speranza. Già nel 1990 si era sperato che il risultato delle elezioni, che aveva visto il trionfo della esile donna di ferro, potesse imprimere una nuova direzione al Myanmar. L’esito delle urne fu ribaltato dall’intervento brutale del regime che costrinse la leader dell’opposizione agli arresti domiciliari, scatenando però nel 2010 le manifestazioni dei monaci buddhisti che riempirono le strade di Yangoon per manifestare a favore della libertà.
 
Nell’esercizio elettorale dell’8 novembre saranno oltre 30 milioni i cittadini chiamati alle urne, molti dei quali per la prima volta. Per la prima volta potranno essere presenti i principali schieramenti politici del Paese. In lizza vi sono circa 90 fra partiti e movimenti politici di varia natura ed estrazione, un numero impensabile fino a pochi anni fa nella nazione del Sud-est asiatico retta da una ferrea dittatura militare.
 
Il Parlamento dovrà, poi, eleggere il Presidente. Il principale favorito per la vittoria resta il partito di governo Union Solidarity and Development Party (Usdp), emanazione della vecchia giunta, che assieme al 25% dei militari cui è riservato per legge un posto all’Assemblea, controlla la vita politica e istituzionale del Paese.
 
La situazione sociale del Paese è tutt’altro che semplice. Come accennato, il Myanmar conosce da qualche anno una nuova ripresa economica che sta velocemente cambiando il volto del Paese soprattutto nei centri urbani. Yangoon si è trasformata negli ultimi anni, pur mostrando ancora problemi di carattere economico e strutturale che distinguono nettamente il Paese dalla confinante Thailandia. Un ulteriore fonte di apprensione è la crescita del fondamentalismo buddhista, fenomeno nuovo, ma preoccupante.
 
A parte la dolorosa vicenda della minoranza dei Rohingas, una comunità rifiutata da tutti nel sud-est asiatico, negli ultimi tempi sono state imposte norme che cercano di regolare poligamia e conversioni. Volute con forza dalla Ma Ba Tha, un gruppo buddista che rappresenta la frangia estremista del buddhismo theravada birmano, per colpire la minoranza musulmana (e non solo), rischiano di distruggere la speranza di un Myanmar unito, democratico e moderno. Si tratta di una serie di decisioni che, secondo attivisti ed esperti, colpiscono i diritti e le tradizioni della minoranza musulmana (il 5% del totale) e cristiana (circa l’8%).
 
Per denunciare tali pericoli, alla vigilia delle elezioni democratiche, il card. Charles Bo, arcivescovo di Yangon, ha denunciato il fatto che il Parlamento dietro pressione di una élite religiosa ha approvato (e il presidente Thein Sein ha firmato) quattro “leggi nere”. Norme, aggiunge, che “non sono state concepite dai rappresentanti eletti dal popolo del Myanmar”, ma da una “frangia extraparlamentare” che fomenta odio, divisione e rappresenta un pericolo per la democrazia.
 
Si tratta di quattro leggi all’interno del pacchetto “Leggi a difesa della razza e della religione”, che prevede, fra l’altro, che sia necessaria una “approvazione” delle autorità per cambiare religione. Il governo birmano nega che le norme siano state scritte ad hoc per la comunità musulmana, che rappresenta il 5% circa del totale in Myanmar. Il cardinale di Yangoon ha voluto richiamare gli insegnamenti millenari del Buddha e del buddismo che promuovono pace, misericordia, compassione, all’interno dei quali “non vi è spazio per l’odio”.
 
“Ogni sforzo volto a distorcere l’immagine incontaminata del buddismo e il suo messaggio di amore universale – afferma il card Bo – va combattuto da ciascun abitante della nostra nazione. Le narrazioni di odio in nome della religione sono un’offesa agli insegnamenti del Grande Maestro”. Queste quattro leggi, ribadisce il porporato, “sono il risultato di quest’odio profondo” e per questo il legislatore “deve rivederle” per scongiurare il pericolo “di altri decenni di conflitto a venire”.
 
Infine, il card. Bo individua la vera sfida cui il Paese, i suoi abitanti, i leader religiosi e la classe politica devono dare una risposta concreta. Il pericolo più grande, avverte, non sono le conversioni religiose ma “la povertà… che è la religione comune della maggioranza delle persone. Il 30% della nostra gente vive in condizioni di povertà – ricorda – un dato che negli Stati Rakhine [dove vivono i Rohingya] e Chin raggiunge punte del 70%”. “Come nazione – conclude il presule – è necessaria una vera conversione per questo 30% della popolazione costretta a subire una religione oppressiva chiamata povertà”.