di Luigino Bruni
Fonte: Avvenire del 14/03/2018
In queste settimane post-elettorali si sta riaccendendo il dibattito sulle diverse proposte di reddito di cittadinanza e sulle sue varianti. Il confronto è giustamente serio e appassionante, perché tocca cose molto importanti come la povertà, il lavoro, il non lavoro.
Ormai in tutti i Paesi occidentali si stanno implementando forme di aiuto economico a chi per qualsiasi ragione non riesce a produrre un reddito sufficiente per sopravvivere in una forma e in modi minimamente decenti. Ed è una buona notizia. Quindi il dibattito serio non deve vertere sul ‘se’ intervenire, come società politica, in soccorso dei più deboli. Questo dovere etico era ben chiaro ed esplicito già nei primi economisti moderni: «Ogni membro del corpo ha due diritti di esser soccorso dagli altri; il primo de’ quali è quello che gli dà la natura, il secondo quel che nasce da’ patti sociali» (Antonio Genovesi, 1767). L’essere soccorso dagli altri quando si è nel bisogno è insomma, riconosciuto da tempo come un diritto naturale e sociale, e il soccorrere come un dovere.
Le questioni più delicate, controverse e rilevantissime riguardano però come legare questo diritto-dovere legittimo al soccorso (tramite un reddito garantito) con il diritto-dovere al lavoro, ed entrambi alla cittadinanza (o all’essere una semplice persona da soccorrere, non limitando, dunque, gli interventi ai soli cittadini italiani). Qui ci sono due culture che oggi si fronteggiano, ben diverse tra di loro. L’una vede come primario il nesso reddito-cittadinanza; l’altra (che è anche la mia) dà la priorità al binomio lavoro-cittadinanza.
L’ordine logico ed etico tra soccorso-cittadinanza-lavoro cambia in base alla visione che abbiamo della democrazia, del lavoro, della povertà, e in questa algebra sociale se cambiamo l’ordine dei fattori il prodotto cambia moltissimo. Ed è dentro questo scenario che vanno lette le riflessioni che seguono.
Il lavoro sarebbe essenzialmente un mezzo per ottenere un reddito. Questa è l’ipotesi implicita della prima corrente che quindi dà la priorità al nesso reddito-cittadinanza. Ciò che fonda la cittadinanza, si legge ogni tanto, «non è il più il lavoro, ma il reddito». Il mondo sta cambiando troppo velocemente, il lavoro ancora di più. Diventa tutto molto incerto e fragile, e subordinare il reddito per vivere al lavoro renderebbe fragile l’intera democrazia. Quindi meglio sganciare il reddito dall’eventualità del lavoro, e associarlo all’essere parte di un patto civile. Così, si sente dire e si legge, usciamo dalla logica mercantile e mercenaria del do ut des, ed entriamo in quello della fraternità e del dono civili e politici.
Se il lavoro fosse soltanto un mezzo per avere reddito, la circostanza storica attuale di un lavoro incerto e fragile porterebbe facilmente e incontrovertibilmente a cercare un altro meccanismo di distribuzione del reddito, e un meccanismo semplice potrebbe essere un ipotetico ‘reddito di cittadinanza’. Peccato, però, che il lavoro è molto più di un mezzo per avere reddito da consumare.
Prima o insieme a questo scopo, il lavoro è almeno altre tre cose. È il cemento della più grande cooperazione che la storia umana abbia mai realizzato nel corso della sua millenaria storia, la società civile ed economica. Milioni di persone si trovano ogni giorno, ogni ora, dentro a una azione collettiva con altre migliaia, decine di migliaia di persone, semplicemente lavorando (poter leggere questo articolo di giornale dipende dalla cooperazione di migliaia di lavoratori, molti dei quali reciprocamente sconosciuti, ma non reciprocamente indifferenti). Quando non si lavora si è semplicemente fuori da questa immensa, meravigliosa azione collettiva cooperativa e seria. La gente coopera in molti altri modi, ma la vastità, serietà, ampiezza, profondità e generatività della cooperazione lavorativa spicca su tutte come aquila. È poi il modo più serio che ho per far fiorire i miei talenti: certo posso farlo in altri modi, ma niente come lavorare dice agli altri e a me stesso chi sono veramente.
Infine, il lavoro lega il reddito alla reciprocità: quel denaro mi arriva perché ho saputo fare qualcosa in cambio. Ci sono poche cose più belle e degne del do ut des nel mondo lavorativo. Perché se sgancio il reddito dal mutuo vantaggio tra me e gli altri per cui lavoro, si perde il senso profondo di quel denaro che mi arriva nel conto corrente.
Lavorando si imparano i mestieri, si apprendono le competenze, cresce il capitale umano della gente. La scuola e l’università solo in minima parte insegnano arti e mestieri; questi, ieri e oggi, si apprendono semplicemente lavorando, e lavorando in gruppi di lavoro. Un giovane che dopo gli studi rimane a casa, può fare corsi di qualificazione, incontrare mille funzionari dei centri dell’impiego, fare colloqui con consulenti e psicologi, ma finché non inizia a lavorare davvero non è competente in nessun lavoro, perché la competenza matura insieme al lavoro. Ecco perché, a differenza delle proposte che oggi circolano, bisogna distinguere molto chiaramente tra disoccupati che perdono il lavoro dopo aver già lavorato, e inoccupati che non lavorano perché giovani e devono ancora iniziare a lavorare.
Per questi ultimi l’erogazione di un reddito senza lavoro deve essere fortemente scoraggiata se non eliminata del tutto, perché ‘soccorrere’ veramente e seriamente un giovane che non lavora significa soltanto aiutarlo a cercare un lavoro, o aiutarlo a emigrare se non lo trova nella sua regione o nel suo paese. Ma il primo dovere etico di un popolo dice: i giovani dopo gli studi devono andare a lavorare, perché è la sola cosa veramente degna che possono e devono fare, per loro e per tutti. Certo, oggi trovare lavoro è per molti impresa complicatissima. Ma guai a noi se di fronte a questa difficoltà una generazione di giovani si accontentasse di 500 o 800 euro al mese, restando per anni in attesa che arrivi una proposta di lavoro (penso al nostro Sud, dove le offerte di lavoro sono molto meno di quelle necessarie). Il primo messaggio che bisogna dare a un giovane che non lavora è: il lavoro non si attende, né solo si cerca, perché il lavoro si può creare, da solo o meglio se con altri.
Non occorre poi dimenticare che le povertà – ogni povertà, compresa quella lavorativa – non sono una faccenda di flussi (redditi), ma di capitali, come ormai Amartya Sen e i migliori studiosi del tema ci dicono da decenni. In genere, si è poveri perché ci mancano capitali educativi, sanitari, sociali, relazionali, familiari, una carenza di capitali che si traduce poi in carenza di flussi (redditi). Se allora non ‘curo’ i capitali delle persone e mi limito ad agire sui flussi, mi ritrovo semplicemente con un povero con qualche denaro in più, che spesso finisce nei luoghi sbagliati. Diceva a questo proposito un altro economista italiano, duecento anni fa: «La beneficienza senza discernimento non è virtù ma debolezza: dare denari ad un giocatore è dare del vino ad un ubriaco o una spada ad un furioso» (Melchiorre Gioja, 1819). Per curare i capitali occorre che la gente, soprattutto quando è giovane, sia messa nelle condizioni di imparare un lavoro, e poi di svolgerlo, possibilmente secondo i suoi studi, la sua attitudine e vocazione. Ma lavorare sui capitali ha tempi più lunghi di quelli del ciclo elettorale, e quindi si preferiscono scorciatoie, dicendo di agire sui redditi.
Infine, un tratto che accomuna un po’ tutte le proposte in campo su questi temi, è l’individualismo. Si vorrebbe, cioè, provare a curare una malattia così complicata e cronica con il solo ‘medico di famiglia’, senza i team delle operazioni chirurgiche complesse. Il grande assente nel dibattito è il ruolo della società civile. Quando negli anni Novanta del secolo scorso dovemmo affrontare l’emergenza del disagio sociale diffuso, a quella crisi l’Italia rispose inventando la cooperazione sociale, un’autentica innovazione socio-politico-economica, che tutto il mondo ci invidia e alcuni ci copiano. Un’azione collettiva complessa, in linea con la vocazione comunitaria italiana, capace di includere lavorativamente persone con varie forme di disagio. Non facemmo imprese speciali (come nei Paesi dai quali dovremmo prendere lezione di reddito di cittadinanza), dove le persone erano intrattenute in lavoretti finti (anche se, come sempre, qualcuno è riuscito a farlo lo stesso, tradendo lo spirito della cooperazione sociale). Facemmo nascere invece cooperative dove la gente lavorava veramente, nonostante i limiti fisici e psichici. E così si sono organizzate in questi decenni decine di migliaia di cooperative, centinaia di migliaia di posti di lavoro.
Pensare oggi di affrontare seriamente i problemi di milioni di persone, lavorando quindi sui capitali e non solo sui flussi, immaginando un rapporto tra Stato e individuo, mediato da qualche funzionario e ufficio pubblico, è semplicemente utopico.
Dovremmo invece favorire la nascita di una nuova stagione di cooperazione sociale. Gli ambiti dove creare lavoro non mancano in Italia, a partire dai beni culturali, artistici, religiosi, turistici, certamente oggi molto al di sotto della loro capacità produttiva. Ma queste soluzioni richiederebbero prospettive di medio periodo, tanto lavoro nell’architettura legislativa, ascoltare l’anima profonda dei territori, coinvolgere seriamente la società civile. In passato, lo abbiamo saputo fare. Perché non riprovarci? In questa fase di passaggio epocale, sono in molti a predire la ‘fine del lavoro’ e quindi a immaginare un’economia in mano a molte macchine e a pochissimi uomini e donne, talmente efficienti (macchine e persone) da riuscire a generare ricchezza per una maggioranza di persone che dovrà imparare a vivere bene senza lavorare.
Non possiamo controllare le variabili dalle quali dipenderà l’avverarsi o meno di questi scenari, e in quale forme e modi. Certamente il lavoro di domani sarà molto diverso da quello del Novecento. Ma chi ama il lavoro umano, perché ha visto le eccellenze umane, morali e spirituali che ha procurato (insieme alle inevitabili ferite), perché ha visto e vede che i giovani non hanno sogni più grandi di quelli legati al lavoro che potranno fare, perché vede che dove non è il lavoro a fondare la democrazia arrivano immediatamente rendite e privilegi, oggi non può smettere di parlar bene del lavoro, di dire parole buone, di bene-dirlo. Perché solo stimando e benedicendo il lavoro sapremo trovare soluzioni buone a quando il lavoro si ammala, non c’è o non basta.
È il lavoro che cura il lavoro. Ieri, oggi e – siamone certi – anche domani. I nostri bambini devono avere, come lo abbiamo avuto noi, il diritto a sognare la cosa più bella che potranno fare da grandi: un lavoro, un mestiere, una professione. Molto diversi dai nostri, ma ancora lavoro, mestieri, professioni.
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