Geopolitica è parola di moda. Corre e ricorre nei media, talvolta al bar o allo stadio. Imprenditori e finanzieri discettano di “rischio geopolitico”. Decisori politici e strateghi militari l’applicano alle loro procedure. Da qualche anno è entrata, sia pure in punta di piedi, financo nell’accademia italiana.
Eppure fino a pochi anni fa era tabù. In alcuni (rari) paesi e ambienti lo è ancora. Per esempio nel dibattito pubblico tedesco si tende a non evocare la Geopolitik in quanto presunta scienza nazista. In Italia, quando nel 1993 nacque la rivista di geopolitica Limes, autorevoli esponenti del mondo politico l’accusarono di fascismo. Alcuni forse memori di Geopolitica, rassegna diretta da Ernesto Massi e Giorgio Roletto tra il 1939 e il 1942, sotto la benevola protezione di Giuseppe Bottai. I più semplicemente perché usi percepire odore di zolfo attorno a una disciplina associata ai totalitarismi novecenteschi.
Come spesso accade, se rompi un tabù si scatena un sabba. Sicché oggi ognuno si sente in diritto – talvolta in dovere – di produrre la propria definizione di geopolitica, non fosse che per il gusto di discuterne. Posto che tanta vis definitoria non solo è legittima ma probabilmente – e fortunatamente – infinibile, come si spiega questo revival?
Proviamo a indagare la questione a partire dalla più economica delle definizioni: la geopolitica analizza conflitti di potere in spazi determinati. Per questo incrocia nel suo ragionamento competenze e discipline diverse: dalla storia alla geografia, dall’antropologia all’economia e altre ancora. Non è scienza: non possiede leggi, non dispone di facoltà predittive. È studio di casi specifici, per i quali è necessario il confronto fra le diverse rappresentazioni dei soggetti in competizione per un dato territorio, su varie scale e in differenti contesti temporali, e fra i rispettivi progetti, tutti ugualmente legittimi.
Per ciò stesso, il ragionamento geopolitico è dinamico, perché si svolge nello spaziotempo, e nient’affatto limitato alle guerre ma estendibile a dispute politico-amministrative (esempio: come disegnare un collegio elettorale, a quale Regione debba appartenere un Comune, quale giurisdizione spaziale debbano avere certi tribunali, come disegnare una diocesi).
Le analisi geopolitiche hanno carattere contrastivo, giacché la loro pregnanza euristica deriva dalla capacità di mettere a confronto i punti di vista in competizione, non di affermarne la verità di uno. Operazione che spetta eventualmente al decisore o ai narratori, nel senso di chi produce propaganda (narrative). La geopolitica non è quindi patrimonio di una dottrina politica, di una disciplina accademica o di un periodo storico determinato. Esiste da sempre – per noi almeno dalla disputa fra Romolo e Remo nella fondazione di Roma – e cesserà solo con la fine della specie umana. Salvo continuare forse nelle competizioni fra intelligenze artificiali che si siano emancipate dai loro inventori.
Come mai questo termine, che ha più di un secolo di storia, ha subìto tanto ostruzionismo durante la guerra fredda? Perché era interesse delle maggiori potenze dell’epoca – Usa e Urss – e dei loro satelliti propagandare la propria irriducibile contrapposizione sotto specie ideologica e moralistica: liberal-democrazia contro comunismo, capitalismo contro economia pianificata. Bene contro Male. Con la crisi del paradigma ideologico – visibile dapprima nel quadrante comunista a partire dalla guerra di confine fra Repubblica Popolare Cinese e Unione Sovietica, poi gradualmente estesa ai più vari spazi e contesti storico-geografici – sono emersi a evidenza latenti conflitti territoriali che le contrapposte ideologie imperiali tenevano ben velati. Di qui la proliferazione di confini e conflitti territoriali.
Si prenda solo una banale carta politica dell’Europa d’oggi, dove s’incrociano le frontiere di oltre cinquanta Stati e staterelli, e la si confronti con quella del 1914, dominata da pochi imperi, o anche del 1949, quando il continente e in specie la Germania – principale posta in gioco della guerra fredda – erano bisecati dalla “cortina di ferro”. La complessificazione dello spazio europeo, sia formale (visibile) che informale (invisibile, spesso per iniziativa di attori criminali, veri e propri Stati mafia o mafie-Stati), ne risulta plastica. Provare a interpretare i conflitti territoriali ricorrendo alle categorie moral-propagandistiche della cosiddetta èra bipolare significa condannarsi al fallimento.
La principale congiunzione analitica insita nel ragionamento geopolitico attuale riguarda la coppia storia-geografia. E non solo per lo spatial turn o altri approcci recenti diffusi nell’accademia, che insistono sulla necessità di leggere il tempo storico nello spazio. Conviene partire dal suggerimento di Carlo Ginzburg: «Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, rovesciato».
Oggi infatti la geopolitica è carica di storia, più ancora che di geografia. Gli attori geopolitici ricorrono alla storia, ovviamente interpretata in vista della conferma del proprio status e dei correlativi progetti territoriali, per legittimare se stessi e le proprie azioni. La retroversione del presente cerca selettivamente nel passato la prova della bontà della propria geopolitica. Ecco riapparire magicamente, a partire dalla fine della guerra fredda, spazi e miti un tempo consegnati alla storia. Così Putin è lo zar che intende salvare l’impero russo dalla disgregazione finale, Erdoğan il sultano reinventore dello splendore ottomano, Orbán si propone di ricostruire la Grande Ungheria amputata nel 1920 dal Trattato del Trianon e così via.
Negli anni Novanta del secolo scorso qualcuno, nell’Occidente trionfante, volle stabilire la fine non solo della geopolitica, persino della storia. E di chi in entrambe le discipline svolge il ruolo di primattore: lo Stato. In nome di un “mondo piatto” omologato dalla liberaldemocrazia e dal libero mercato. Nulla di tutto questo.
L’uomo resta animale territoriale. L’utopia del Nuovo Ordine Mondiale è esercizio del passato. I nostri spazi di esistenza restano contendibili. Chi immagina di poterli congelare, magari in nome del diritto internazionale (quasi non fosse anch’esso una ideologia strumentale a progetti geopolitici), soffre di acuta sindrome d’onnipotenza. La geopolitica aiuta a temperarla.
Articolo originariamente pubblicato su L’Espresso.
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