La regione, sebbene non sia la più povera è la più disuguale, ha dei problemi di distribuzione della ricchezza. Prendiamo il caso del “migliore della classe”: il Cile.
Non è facile comprendere perché l’America Latina, così ricca in risorse naturali, non riesca ad approdare allo sviluppo. Non si tratta della regione più povera del pianeta, anche se poveri e fame hanno ripreso a crescere, ma di quella più disuguale. Quando si misurano i livelli delle disuguaglianze, si evince che anche in presenza di crescita economica, questa – come una torta mal divisa -, beneficia ad alcuni e non a tutti, né alla maggior parte. Con una aggravante: le teorie economiche neoclassiche assicurano e quasi giurano che con la crescita i benefici vengono reinvestiti e tale “esondazione” di ricchezza beneficia il resto. La realtà dice che ciò avviene solo in minima parte, favorendo il lusso, l’evasione dei capitali in concomitanza con una forte evasione fiscale. Si stima che ogni anno 360 miliardi di dollari siano evasi nella regione, dei quali 170 miliardi finiscano nei paradisi fiscali.
Un esempio concreto potrà aiutare a comprendere meglio i meccanismi delle disuguaglianze. Prendiamo il caso del migliore della classe, il Cile. Un paese considerato ordinato, stabile e con istituzioni affidabili. Ha 17,5 milioni di abitanti, un pil intorno ai 270 miliardi di dollari. Fa parte della Ocse, l’organizzazione che riunisce i 35 paesi più ricchi.
La prima sproporzione appare quando si confronta il Pil pro capite, che è intorno ai 18.000/19.000 euro, con altri dati ufficiali. Infatti, il 20% più ricco ha in mano il 72% della ricchezza del Paese. A chi tocca il resto? Non al 20% più povero, che ha invece ricchezza zero o negativa (debiti). Sarà il restante 60% della popolazione, quella sita tra i settori poveri ed i settori ricchi, ad accedere al restante 28% della ricchezza. Quando affiniamo le statistiche dei dati macro, scopriamo che lo 0,01% del 20% più ricco del Paese (340 persone) dispone intorno al 10% del reddito e lo 0,1% (3.400 persone) dispone del 20% circa del reddito.
La scala dei salari conferma in che modo si producono tali squilibri. Dei circa 9,25 milioni di salariati, più del 52% riceve stipendi che vanno tra lo 0 e i 350 mila pesos cileni mensili. Siamo intorno alla terza o quarta parte delle entrate necessarie a una famiglia di quattro persone per vivere in modo decente. Un altro 30% circa ottiene stipendi che arrivano fino a 700 mila pesos, tra la metà e i due terzi del necessario.
Il governo vanta come risultato un tasso di povertà molto più ragionevole se comparato con la regione, il che è vero. Ma quando analizziamo i numeri a fondo, questi ci dicono che la povertà varia a seconda di come la si misura. Se solo si considera il reddito, questa è intorno all’11,4% della popolazione; se si misura in modo multidimensionale (accesso alla salute, istruzione, lavoro, ecc.) questa schizza al 19,1%. E a tale percentuale va aggiunto il settore vulnerabile che pur non essendo povero, con minimi cambiamenti lo può diventare. Si aggiunge dunque un altro 20%. Povertà e disuguaglianze non sono un fenomeno naturale, una disgrazia o frutto di svogliatezza. Il Cile produce ricchezza ed anche in modo sufficiente, ma la distribuisce male. Ed a ciò si aggiunge uno Stato deficitario nella prestazione di servizi essenziali, come sanità, istruzione, ecc.
Gli industriali, da parte loro, si strappano i capelli ogni volta che si parla di incrementare il loro contributo attraverso le tasse. Ma il Cile è penultimo nella Ocse nel ranking del rapporto tra prelievo fiscale e pil. Se la media generale è del 34%, con punte superiori al 40 e 50%, in Cile si è al 20%. Ma se questo succede in casa del migliore della classe, cosa mai succederà altrove? Inoltre, come rispondere a tale sfida?
Negli ultimi anni nella regione si è cercato di modificare tale struttura gonfiando il contributo dello Stato, con una distribuzione di risorse tra i settori meno abbienti. Ma ciò spesso è degenerato in inefficienza e in clientelismo. Di certo, va superata sia la fede cieca nello Stato minimo che quella nello statalismo di vecchia data. Senza un maggiore senso di responsabilità sociale (ad esempio pagando le tasse) e del bene comune, sarà difficile che ogni Paese possa trovare la sua ricetta per lo sviluppo.
Scrivi un commento