di Romano Prodi
Dopo la Brexit – Il pentimento britannico rafforza l’Europa
Siamo ormai arrivati a metà strada tra il giorno del referendum nel quale il popolo britannico ha deciso di uscire dall’Unione Europea (23 giugno 2016) ed il giorno in cui questo divorzio dovrà definitivamente concretizzarsi (29 marzo 2019 alle ore 23). Eppure, come è emerso nel dibattito organizzato giovedì scorso dal Messaggero, i termini e i modi di questo divorzio non sono né chiari né definiti.
Anzi, più passa il tempo, più i problemi aumentano. Emerge infatti in modo inequivocabile che, da parte britannica, si sono grandemente sottovalutate le conseguenze della separazione da un’unione durata 44 anni. Una separazione che implica il cambiamento di oltre 12.000 atti legislativi e di 1000 trattati.
Si tratta di una trasformazione radicale delle strutture istituzionali e degli assetti economici, politici e sociali della Gran Bretagna. Tutto questo ha diviso profondamente il governo britannico e sta producendo tensioni sempre più aspre nel mondo politico e, soprattutto, nel partito conservatore sempre più frammentato fra falchi e colombe nel negoziato con la UE.
Lo stesso primo ministro Theresa May viene quotidianamente attaccata, ora con l’accusa di essere troppo debole e ora di non sapere quale direzione prendere nelle trattative, mentre il suo grande antagonista Boris Johnson ragiona ancora come se la Gran Bretagna fosse l’impero dominante di tutto il pianeta. A loro volta la quasi totalità degli alti funzionari e degli ambasciatori teme che la Brexit costituisca un danno irreparabile all’economia e diminuisca l’influenza britannica nel mondo. Si tratta peraltro di un timore avvalorato dal rallentamento della crescita economica degli ultimi mesi, dal calo del prezzo degli immobili di Londra e, soprattutto, dal trasferimento di migliaia di addetti del settore bancario e finanziario verso Dublino, Francoforte e Parigi.
La tempesta è così grande e le conseguenze così pesanti che un numero sempre maggiore di cittadini britannici pensa che l’unica ragionevole via d’uscita sia la ripetizione del referendum.
Una via d’uscita che a me sembra impossibile da percorrere, una via che Michel Barnier, capo negoziatore per l’Unione, ha escluso in modo perentorio nel suo intervento al dibattito del Messaggero.
Barnier non solo ha eliminato ogni possibilità di ripensamento ma ha sostenuto in modo inequivocabile che, pur auspicando una “separazione ordinata”, la Gran Bretagna non potrà uscire dal mercato unico e, nello stesso tempo, pretendere di preservarne i vantaggi.
A questo si aggiunge il complicato capitolo dei conti economici da saldare, un capitolo che ancora vede distanze incolmabili fra le due parti ma che trova una posizione negoziale dell’Unione estremamente dura fondata sul principio che, fino a che non si arriva al divorzio definitivo, non si può fare pagare solo a 27 paesi quello che deve essere pagato da 28.
A metà del lungo processo negoziale le posizioni sono quindi ancora lontanissime ma, di fronte alle divisioni politiche da parte britannica vi è, almeno fino ad ora, una sostanziale convergenza di opinioni da parte europea.
L’andamento dei negoziati sta inoltre scoraggiando qualsiasi residua ipotesi di secessione da parte di altri paesi europei. A mio parere questi timori, pur essendo diffusi, non erano molto concreti nemmeno in passato.
Anche nei paesi che praticano la politica più ostile a Bruxelles i vantaggi di appartenere all’Unione Europea sono infatti troppo evidenti in termini di crescita economica e di risorse ricevute. Tutte le analisi demoscopiche riferite a questi paesi, inclusa la Polonia e l’Ungheria, dimostrano espressioni di diffuso scontento riguardo a molti comportamenti e a molte decisioni delle Istituzioni europee ma, quando si pone la domanda se convenga uscire dall’Unione, la risposta è assolutamente negativa.
Il caso britannico risulta inoltre diverso dagli altri perché i suoi cittadini sono i soli europei ad avere sempre mantenuto un rapporto talmente privilegiato con gli Stati Uniti fino a fare pensare che questo legame avrebbe potuto sostituire, con la stessa efficacia, l’appartenenza all’Unione Europea. Convinzione che, pur contraddetta da tutti i dati disponibili, rimane ancora ben radicata nella fantasia di molti cittadini britannici.
Anche perché il Presidente Trump, pur nella sua costante imprevedibilità, continua a preferire rapporti privilegiati con la Gran Bretagna e ad alimentare espressioni di sufficienza, se non addirittura di disprezzo, nei confronti dell’Unione Europea.
L’unica risposta efficace a queste provocazioni sta nel riuscire a dimostrare che la Brexit, pur segnando una perdita in termini di forza economica, è un’occasione per costruire un’Europa più coesa e politicamente più efficace.
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 12 novembre 2017
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