di Alberto Barlocci
Sotto accusa l’ex presidente Lula per aver riciclato denaro sporco. Si chiede la sua detenzione preventiva, ma è difficile non vedervi un’intenzionalità politica. Mentre avanza la crisi istituzionale, l’economia vive la peggiore recessione degli ultimi decenni. Dimostrazioni nelle piazze. L’incompatibilità tra corruzione e sviluppo
Non solo la tormenta politica in Brasile non accenna a diminuire, ma col trascorrere del tempo assume nuove e più gravi dimensioni, quasi da tormenta perfetta, combinando i suoi effetti con la durissima recessione economica. Lo scandalo per la rete di bustarelle e privilegi concessi dalla statale Petrobras (stiamo parlando di un giro di tangenti tra i quattro e i sei miliardi di euro) è arrivato alla porta di Luiz Inácio Lula da Silva, figura chiave del doppio miracolo brasiliano: una crescita spettacolare, ottenuta in otto-dieci anni, che ha trasformato il Paese nell’ottava economia mondiale, allo stesso tempo recuperando 40 milioni di poveri, passati dalla povertà alla classe media grazie alle politiche sociali che hanno inciso sulla ridistribuzione del reddito.
Nel giro di una settimana l’ex presidente, e leader indiscusso del Partido dos trabalhadores (Pt), è stato protagonista di una grande operazione di polizia (200 agenti e 30 periti): la sua casa è stata perquisita e lui condotto in commissariato, trattenuto per diverse ore di interrogatorio nel quadro di un’indagine parallela per lo scandalo Petrobras. Poi è stato denunciato dai pubblici ministeri per riciclaggio di denaro sporco e omissioni nella dichiarazione patrimoniale, accusa accompagnata dalla richiesta di arresto preventivo, giustificata dalla facilità con la quale Lula potrebbe darsi alla fuga e minacciare o intimorire testimoni della pubblica accusa.
Lula è accusato, insieme a sua moglie, di non aver dichiarato un appartamento lussuoso, sito in una località marina. L’ex presidente sostiene che non si tratta di una sua proprietà ma di un bene appartenente ad un’azienda edile, la Oas, anch’essa però coinvolta nello scandalo Petrobras, al punto che il pubblico ministero ha chiesto la detenzione preventiva anche per un ex titolare dell’impresa.
Appare difficile non vedere un’intenzionalità politica in queste misure giudiziali. Lo ammettono persino gli avversari dell’ex presidente che, tra l’altro, ha sempre offerto la propria disponibilità a parlare in sede investigativa. Una sua fuga sarebbe poi non solo un’amissione di colpa, ma anche il tracollo definitivo del governo del Pt, capitanato dalla presidente Dilma Rousseff. Gli inquirenti sostengono la loro richiesta per il sospetto che un eventuale incarico nel governo della Rousseff metterebbe Lula a salvo dalla magistratura, fatta eccezione per il Supremo tribunale federale. Ma anche in questo caso, davanti ad un’opinione pubblica che da mesi protesta indignata contro la corruzione e che questa domenica è scesa in piazza in tutto il Paese, sarebbe una débâcle politica che potrebbe indurre anche i più fedeli alleati a punire la presidente con l’impeachment che ancora pende sul suo mandato.
Si tratta dunque di una delicatissima crisi instituzionale ma anche, e soprattutto, politica. Alcuni analisti ammettono apertamente che siamo di fronte al tentativo di “golpe istituzionale”. Un ossimoro, certo, perché senza violare le norme costituzionali se ne forza l’applicazione. Ed è il sintomo di uno scontro tra interessi divergenti: quelli di un modello di gestione centrato sullo Stato quale arbitro del mercato e delle politiche sociali – pur se imperfetto e piagato dalla corruzione – e gli interessi dei mercati finanziari e dei settori industriali, con l’ausilio di media poderosi, come la rete O’Globo, che rifiutano di assumere la loro quota del costo sociale in una delle peggiori recessioni degli ultimi decenni. Se lo scorso anno il pil nazionale è sceso del 3,8 per cento, per quest’anno si prevede un altro 3,5 per cento in meno.
A ribellarsi usando tutti gli strumenti legali, sono gli stessi settori che a suo tempo, quando cominciò il primo governo Lula, condivisero la sua proposta: «Con noi guadagnerete denaro come non mai». Lo hanno fatto in modo lecito, durante anni di economia col vento in poppa e, come dimostra la pioggia di scandali, anche in modo illecito. Tra le decine di condannati a pene durissime, figurano infatti anche manager e industriali. Quanto stia loro a cuore il portafoglio lo dimostra la disponibilità a creare un problema di governabilità pur di difendere i loro utili.
Sul piano giuridico chi dovrà stabilire le colpe è la giustizia. Ma questa tormenta perfetta sorta a partire dalla corruzione lascia in chiaro che il pragmatismo, anche se in nome del popolo, non paga e nemmeno convince più. Nel passato era in voga in America Latina un detto: «Rubano, ma almeno fanno qualcosa». Oggi la qualità democratica e lo sviluppo hanno bisogno di una classe politica che non solo faccia, ma che non rubi. Per la semplice ragione che corruzione e sviluppo hanno smesso da tempo di convivere. O l’una o l’altro.
fonte: Ciudad Nueva Argentina
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