FONTE: CITTÀ NUOVA
Anche l’America Latina comincia a fare i conti col coronavirus, perché il contagio è ormai arrivato anche nella regione.
Argentina, Colombia, Perù e Cile hanno già chiuso le frontiere questo lunedì 16 marzo, in vari Paesi sono state sospese le lezioni durante due settimane in tutte le scuole. Anche gran parte delle università stanno, via via, sospendendo le attività presenziali adottando modalità a distanza. Il numero dei casi verificati cambia di ora in ora: in Cile tra domenica e lunedì sono raddoppiati, da 75 a 156, in Argentina sono ancora 56, più di 120 in Brasile, 34 in Colombia.
Ma ora entrano in gioco i sistemi sanitari nazionali. Questi, dagli anni ‘90 in avanti sono stati falcidiati dalle teorie sullo “stato minimo” che hanno finito per trasformare la salute in un bene commerciabile come qualsiasi altro, il che li pone la spesa sanitaria generale ben al di sotto del 6% del Pil che la Organizzazione mondiale della salute raccomanda destinare a questo settore. La media regionale delle risorse destinate a tale scopo è del 2,2%, con poche eccezioni: quella di Cuba (10 %), Costa Rica ed Uruguay che riescono destinare il 6%.
Ma, come sempre succede, occorre conoscere bene cosa indichino i dati statistici. Uno studio recente condotto nella capitale cilena, Santiago, ha indicato che anche all’interno della stessa metropoli la speranza di vita cambia molto, e questa si riduce fino a 18 anni meno nei settori della città dove si concentrano i settori meno abbienti, rispetto a quelli con maggior reddito. Ospedali fatiscenti, con poco personale, carenti di risorse e di strumentazioni specialistiche si trasformano di fatto a una negazione del diritto all’ assistenza sanitaria che le costituzioni riconoscono ma non garantiscono.
Ancora l’esempio del Cile ci illumina: in un Paese con una costa molto estesa il consumo di frutti di mare è abbastanza sostenuto e, ad esempio, certe specie come le ostriche vanno pescate sommergendosi a 7, 8 o 10 metri. Ebbene, dopo più di 2 mila km di costa, da nord a sud, solo a partire da Valparaíso è possibile reperire una camera iperbarica per i casi di embolia.
Tra le città e le zone rurali, spesso remote, impervie da raggiungere tra catene montuose, selve, fiumi, ecc. la differenza diventa abissale, al punto di far la differenza tra la vita e la morte, perché spesso solo le grandi città hanno centri oncologici o capaci di trattare casi di alta complessità, mentre molti settori della popolazione non hanno le risorse per sostenere viaggio ed alloggio in un’altra città per accompagnare un paziente.
Si comprende dunque perché, durante i famosi dieci anni di crescita sostenuta dell’economia latinoamericana, dal 2003 al 2012, una parte di queste risorse è stata destinata a migliorare la struttura sanitaria e a sostenerne, anche se in modo insufficiente, la spesa. Purtroppo, tale politica non è stata accompagnata da una espansione dell’attività produttiva in modo che fosse sostenibile la spesa pubblica, che è cresciuta non sempre in modo razionale. Quando l’economia prima ha sofferto un freno e poi è riapparsa la fase de crisi, i settori più abbienti si sono rifiutati di assumere il maggior costo dell’apparato pubblico (a volte sprecone ed inefficiente) tornando all’idea poco felice di non includere la spesa sanitaria tra gli investimenti.
L’America Latina ha, forse, due vantaggi rispetto alla Cina ed all’Europa. Intanto, accumula una certa esperienza in materia di epidemie. In questi anni ha dovuto lottare contro il dengue, la febbre gialla e varie altre malattie infettive. Dispone poi dell’informazione accumulata negli ultimi due mesi sulle pratiche che hanno dato migliori risultati. Il che dovrebbe aiutare a non commettere gli stessi errori. Ma, una volta passata l’emergenza, bisognerà riprendere il discorso delle politiche sociali e dell’economia in generale.
Oggi si comprende quanto sia rischioso non possedere un sistema sanitario affidabile.
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