di Massimo Toschi

La chiusura della spianata delle moschee ha acuito la tensione tra israeliani e palestinesi e si aggiunge alle ferite della terza guerra a Gaza. Eppure segnali semplici di speranza continuano a nascere tra le macerie. A quando la decisione di dire basta?

Immagine banner1Da dieci anni, tutti i venerdì alle ore 17,30 (alle 18 nel tempo estivo) una piccola suora del baby hospital di Betlemme recita il Rosario presso il muro, nel luogo in cui anche papa Francesco si è fermato e ha pregato durante il suo viaggio in Terra Santa nel maggio scorso. Questa suora insieme ai suoi amici cristiani, ma anche assieme ai musulmani recita il Rosario, camminando lungo il muro, dove è disegnata un’icona della Madonna. Li si sosta, si canta il Salve Regina e poi si da la benedizione finale . Una preghiera perseverante non di dieci giorni o dieci settimane o dieci mesi, ma di dieci anni con la convinzione che la preghiera è più forte delle armi, della violenza, della ingiustizia e che Dio non dimentica la sofferenza del popolo palestinese e il dramma di Israele, che affida la sua sicurezza al potere della forza e non del dialogo, quasi un accecamento che gli impedisce di vedere la gioia dell’incontro e non la durezza e la tragedia del conflitti. Una settimana fa eravamo lungo il muro e pregavamo, con la mitezza dei forti. Anche io. Il segno di novità è stato un bimbo disabile, che aggrappato al collo di un giovane prete toscano, è andato a salutare un soldato impegnato nel conrollo delle vetture di passaggio. E il giovane soldato lo ha salutato alla fine della preghiera. L’icona di questo incontro si rifletteva sulla immagine della spianata del tempio, venerdì scorso vuota, mentre la città vecchia di Gerusalemme era bloccata da mille soldati israeliani e i musulmani non potevano recarsi alla preghiera, impedita loro da centinaia di uomini armati. Due icone contemporanee: quella della pace e quella del conflitto e il mistero di Gerusalemme al centro. Da settimane la tensione sulla spianata del tempio era cresciuta. Giovani israeliani ultraortodossi hanno creato situazioni di conflitto con i muslmani in preghiera rivendicando un potere di possesso sulla spianata stessa. I gravi incidenti di questi giorn, mostrano che la situazione si va aggravando di giorno in giorno e di ora in ora. Toccare la spianata delle moschee vuol dire accendere un fuoco,che potrà espandersi a tutto il Medio Oriente con risultati ben più gravi, di quelli già terribili che accadono sotto i nostri occhi. Davvero l’ebraismo si può riconoscere in un fanatismo che punta alla negazione e alla distruzione del popolo palestinese? Può davvero essere questo il disegno di Israele? La religione che attende il messia si può ancora consegnare ai carri, ai cavalieri e ai cavalli e non ai diritti dei poverii e di chi si trova senza un luogo per abitare e ora anche per pregare? E’ noto come il difficile equilibrio dei cristiani al Sepolcro ha il suo fondamento nel non toccare nulla in una cultura dell’immobilismo, per cui si rinuncia ai diritti e alle pretese di ciascuna confessione, purché sia salva la pace. Questa è una parabola per la politica nel conflitto israelo-palestinese che ci ha condotti alla terza guerra di Gaza in cinque anni. Non è possibile andare avanti in questo modo, con il devastante meccanismo di distruzione-ricostruzione. La guerra non è una politica, ma il fallimento della politica. Lo deve sapere il governo israeliano, che in cinque anni ha combattuto tre guerre a Gaza. Lo deve sapere il governo palestinese, che con grande fatica ha maturato una via non violenta all’accordo, dopo anni dove anche lì la violenza voleva avere l’ultima parola. Llo deve sapere anche Hamas, che strumentalizza oltre ogni decenza il dolore dei palestinesi e che rischia assieme al governo israeliano di rappresentare il partito unico della guerra. Oggi a Gaza ci sono cinquemila ragazzi handicappati a causa dei conflitti. Questa può essere considerata una politica? Se poi in mezzo mettiamoanche la questione religiosa, le fiamme della violenza spazzerebbero via tutto compresa Gerusalemme. E non solo. Davvero è venuto il tempo di convertire la politica in Palestina e in Israele . Rimane la preghiera del papa con Simon Peres, con Abu Mazen e con il patriarca di Costantinopoli:la confessione contro tutti i fanatismi ed estremismi che il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo e il Dio compassionevole e ricco di misericordia non tollera perchè anchel Dio delle vittime e Dio di quel bimbo disabile accanto al muro che gioca con il soldato. L’Europa aiuti a fermare questa deriva di fanatismo e di cecità e riconosca lo stato palestinese, non come polemica contro Israele, ma come riconoscimento del dolore di questo popolo che ha pagato e paga ogni giorno, un prezzo altissimo alle dissennate politiche della violenza. E’ evidente interesse anche per Israele la nascita dello stato palestinese perché renderebbe più sicura e stabile tutta l’area. L’incontro al muro a Betlemme tra il bimbo disabile e il soldato israeliano conferma questo:la pace è ancora possibile.

fonte: Città Nuova