Su questo sito, ieri Fabio di Nunno ha spiegato i risultati del summit di Abidjan del 29 e del 30 novembre tra Unione africana e Unione europea, il quinto della serie, e al suo articolo rimandiamo per capire che accordi sono stati firmati dagli 83 capi di Stato e di governo (rappresentati 55 Paesi africani e 28 europei) alla presenza di 5302 partecipanti.
La grande vedette del summit di Abidjan, il presidente francese Emmanuel Macron, ha intuito forse più di altri il problema, ed ha investito non poche forze nella riuscita del summit, intraprendendo nel contempo una tournée africana che lo ha portato a pronunciare discorsi apparentemente rivoluzionari e concilianti, atti a far sperare che la pagina del colonialismo non solo militare ma anche economico e culturale fosse stata girata. Quanta retorica e quanta sostanza? Si vedrà.
Il tema non era di scarsa importanza: “Investire nella gioventù. Per un futuro sostenibile”, a 10 anni dall’adozione della “Strategia congiunta Africa-Ue”, che nei fatti non ha prodotto grandi risultati, anche se in questi anni aveva dato adito a non poche speranze.
In realtà qualcosa di nuovo c’è stato: l’Europa ha preso paura. Si è accorta, a causa dell’ondata migratoria di questi ultimi 5-6 anni, che non è e non sarà facile interrompere il flusso di “migranti economici” e non solo e non tanto di “rifugiati” che arriva dal continente nero.
Se infatti i rifugiati causati dalle guerre e dai dittatori sono comprensibili e si può lavorare sui singoli casi perché cessino di operare le cause della migrazione (prova ne sia il fatto che dal Gambia, cambiato il dittatore Jammah, il flusso dei migranti è calato di quasi la metà), le cause economiche sono in realtà molto più difficili da combattere, o da curare. Se dei giovani pieni di energie affrontano il calvario di viaggi infiniti e pericolosissimi, arrivando in campi profughi libici da incubo, sfruttati e torturati, ebbene, vuol dire che le motivazioni sono più profonde di quanto non si possa pensare.
L’Europa, s’è sostanzialmente sentito dire ad Abidjan, ha capito che ormai gli africani vanno aiutati a casa loro con imponenti trasferimenti di denaro (sulla carta 44 miliardi), che la gioventù locale deve trovare lavoro in patria, che le risorse dei singoli Paesi debbono portare frutto sul posto e non all’esportazione solamente. Si è parlato di un nuovo Piano Marshall o Piano Europa (ma con quali obiettivi e quali mezzi? Poco si sa), si è cercato di trovare il modo di spargere a pioggia un po’ di risorse sui singoli Paesi perché intraprendano politiche di sviluppo e di riduzione della disoccupazione.
In realtà si tratterebbe non tanto di donare dei fondi all’Africa, ma smetterla di sottrarre al continente nero le risorse che le sono proprie. Si tratterebbe di mutare l’atteggiamento fondamentale di tanta parte dell’Unione europea, un neo-colonialismo economico che non cessa di portare frutti nefasti. Francia in testa, un Paese che ancora fa il bello e il cattivo tempo in tanti Paesi africani, guarda caso Costa d’Avorio in testa.
Su questo dossier “post-colonialista” i discorsi sono ancora vaghi, o solamente di principio. In realtà l’impressione generale è che, a parte le parole di facciata concilianti e centrate sulla necessità di un partenariato strutturale e continuativo tra i due continenti, gli accordi firmati non sembrano avere il respiro necessario per avviare un vero partenariato “a parità”, ma solo lo scopo di arrestare almeno temporaneamente, il flusso migratorio verso l’Europa. Si curano gli effetti e non le cause, purtroppo. Tanto più che i tre grandi assenti dal summit di Abidjan, cioè Cina, Usa e Russia, sono tra coloro che più partecipano allo sfruttamento del continente africano.
Ad Abidjan si sono viste due grandi Unioni, quella europea e quella africana, ma ben poca unione. E tuttavia la via di queste assemblee non è da gettare alle ortiche: parlarsi è sempre meglio che non farlo.
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