FONTE: CITTÀ NUOVA

Il governo dà le dimissioni, ma permane un’incertezza grave sul futuro. Il problema Hezbollah al centro della questione. Un popolo che già è all’opera per ripartire. Un Paese che merita l’aiuto internazionale
Libano: una manifestazione dopo l’esplosione (AP Photo/Felipe Dana)

Libano: Hassane Diab (sunnita), il primo ministro uscente, ha gettato la spugna. Ha finito per cedere alla piazza, ed ha consegnato al presidente Aoun le sue dimissioni dopo aver perso vari pezzi del suo governo, mentre anche in parlamento si moltiplicano le dimissioni. Una classe politica attaccata sin dal 18 ottobre, con l’inizio della rivoluzione, forse è vicina al collasso finale tanto richiesto da una popolazione allo stremo.

Non parlano di dimissioni gli altri due elementi-chiave della “democrazia confessionale” alla libanese, cioè il presidente Michel Aoun (cristiano) e il presidente del parlamento Nabih Berri (sciita). Ancorati alle loro poltrone, avranno difficoltà a dimettersi. Certo, la loro giustificazione è semplice: in questo momento non si può lasciare il Paese in balia di sé stesso, serve una qualche autorità. Ed è anche vero che, senza tali figure centrali, il sistema di potere libanese non può funzionare.

Quel che conta, allora, come anche sottolineato da Macron, che pare l’uomo politico più deciso ad aiutare il Libano, anche per interessi particolari va detto, è avviare un processo virtuoso, formando quel governo di “tecnici” o “tecnocrati” che la folla chiede da tanti mesi, ma indirizzandosi concretamente nel contempo verso nuove elezioni e un radicale cambiamento della situazione politica libanese. Anzi, gli osservatori più attenti chiedono una Assemblea costituente, che possa rimettere mano alla complessa piattaforma politica uscita dalla Costituzione del 1943 e dagli accordi di Taef, siglati nel 1989 al termine della guerra cosiddetta civile.

Così, ad una settimana dalla apocalittica esplosione nel porto di Beirut, il premier se ne va, sospinto alla porta da giorni di violenze tra manifestanti e polizia, accompagnate da una serie di dimissioni illustri. È quindi una vittoria da attribuire al movimento di protesta, anche se non è sufficiente a soddisfare le richieste dei manifestanti che vogliono porre fine alla classe politica nel suo insieme. Ma chi gestirà ora un Paese allo sbando? Chi assicurerà i servizi essenziali? Chi spenderà gli aiuti promessi dalla Conferenza dei donatori organizzata da Macron e dall’Onu? Chi darà un po’ di sicurezza a un Paese sfiancato?

La comunità internazionale è impaziente di vedere il Libano avviare un reale processo di riforme economiche e politiche, consueta condizione per aiutare il Paese a risollevarsi. Ma il problema ineludibile, a ben guardare, ormai è uno e uno solo: la presenza di Hezbollah nel governo, e quindi l’influenza iraniana nel Paese. Il “Caesar Act” di Trump, cioè la legge che ha messo con le spalle al muro chi collabora con l’Iran, ha avuto un suo effetto, così come le manovre sul tasso di cambio, certamente guidate da mani straniere. E tutte le vicende siriane non sono da meno: ogni sommovimento è avvertito in Libano come una stilettata.

Non si discute sulla bontà o meno delle scelte anti-iraniane di una vasta coalizione che parte da Israele e passa per Stati Uniti, Arabia Saudita e tanti altri Paesi. Ma di fatto il Libano soffre oltre misura di tale conflitto internazionale, e deve sopravvivere in una coabitazione dettata dai numeri: Hezbollah controlla un terzo del Paese, ha la sua milizia, ha la sua struttura economica, una sorta di Paese nel Paese. La semplice esclusione di Hezbollah dal governo non sembra essere la soluzione di tutti i mali, anche perché la corruzione alligna soprattutto negli altri campi, quello sunnita e quello cristiano. Notoriamente gli Hezbollah hanno meno interessi personali nella politica, anche se approfittano del sistema di corruzione per finanziare i loro interessi e quelli del loro protettore iraniano.

Soluzione, quindi, che non può essere solo interna. La comunità internazionale può invece spingere per la creazione di un governo composto da esperti dei diversi campi, pur mantenendo un premier sunnita come previsto dalle carte e dagli accordi, e avviare un processo di riforma costituzionale. Potrebbe farlo, se lo volesse. La tragedia del porto di Beirut ha creato una voragine di 34 metri, ma ha anche sgombrato il campo da remore politicanti: bisogna agire se si vuole salvare un Libano che è una ricchezza unica per la regione. Il popolo sta già lavorando per uscire dall’ennesima crisi. Il popolo, non lo Stato, ha spazzato dalle strade i vetri rotti. Il popolo sta cercando di ritornare a galla e imporre un governo più efficace. La comunità internazionale può aiutare questo popolo straordinario. Per ridare ai libanesi uno Stato e soprattutto un’amministrazione pubblica degni del loro nome.