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UNA ANALISI DI ISPI

Quando si parla di governanti dell’Africa subsahariana, il più delle volte la tendenza a ricorrere agli stereotipi sembra insopprimibile. Ma più che mai nel caso del nuovo primo ministro dell’Etiopia, gli stereotipi sono fuorvianti. Abiy Ahmed, alla guida del paese da soli otto mesi, si è immediatamente affermato come una figura di marcata rottura. Nessuno può dire quanto durerà – su ogni riformatore pesano sempre forze e interessi che spingono in direzione contraria –  ma l’eccezionalità del profilo che questo giovane leader si è ritagliato è al momento indubbia.

Una serie di iniziative risolute, oltre che ritmate quasi senza soluzione di continuità, rendono Abiy, a soli 42 anni, il leader più coraggioso e innovativo dell’Africa di oggi (seguito a una certa distanza da João Lourenço, il nuovo presidente dell’Angola, anch’egli intento a smontare elementi importanti del sistema che ha ereditato e rilanciare il paese). Nello spazio di pochi mesi, il primo ministro etiope ha stipulato una storica pace con l’Eritrea – a cui ritorniamo tra poco – riaprendo il confine tra i due paesi dopo vent’anni; ha posto fine allo stato di emergenza; ha liberato migliaia di detenuti politici (permettendo il rientro degli oppositori in esilio) e permesso un’informazione libera da censure; ha sostituito i vertici di esercito, polizia e intelligence; ha assegnato alle donne la metà dei ministeri del suo governo e portato per la prima volta una donna, Sahle-Work Zewde, alla presidenza della repubblica; ha collocato alla delicata guida della Commissione elettorale un’altra donna, ex giudice e leader dell’opposizione, rientrata dopo sette anni di esilio negli Stati Uniti. Ha annunciato la graduale liberalizzazione di settori economici fino ad oggi tenuti sotto l’esclusivo controllo statale, tra i quali telecomunicazioni, linee aeree ed energia, e perfino promesso – capo di un governo che controlla il 100% dei seggi nel parlamento – elezioni finalmente libere nel 2020.

Ma a colpire l’immaginario degli etiopi e quello internazionale non sono state non solo le numerose iniziative. Anche il suo linguaggio, scelto accuratamente, ha un modo nuovo di prospettare riconciliazione interna ed esterna, e contribuisce a guadagnargli una straordinaria popolarità. Il termine al quale è più frequentemente associato è la parola di lingua amarica medemer. Difficile da tradurre, evoca il senso del mettere assieme, assommare, fare sinergia, riconciliare in armonia, ed è quindi, nei fatti, un incoraggiamento a superare le tensioni nel rispetto delle diversità identitarie che attraversano una popolazione di oltre 105 milioni di abitanti, la seconda per dimensioni demografiche nel continente. 

Il gigante del Corno d’Africa ha una storia unica nell’intera area, un regno multietnico capace di resistere di fatto all’occupazione coloniale europea, se non per la breve parentesi italiana. Con tensioni etniche interne ed esterne mai davvero risolte, il percorso contemporaneo dell’Etiopia è stato profondamente segnato da due rotture rivoluzionarie. La prima, nel 1974, quella che rovesciò l’imperatore Hailé Selassié e diede vita ad una drammatica esperienza con il governo militare del Derg sotto Mènghistu Hailè Mariàm. La seconda, nel 1991, con il rovesciamento di quest’ultimo da parte di un movimento ribelle armato, l’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF), e dei suoi alleati eritrei. Da allora l’EPRDF è rimasto ininterrottamente al potere ad Addis Abeba, un partito-federazione di quattro distinte organizzazioni etno-regionali (per oromo, amhara, tigrini, e per le comunità del sud). 

Alla morte per malattia, nel 2012, del carismatico Meles Zenawi, l’ex leader ribelle e poi primo ministro di origini tigrine che aveva ideato e spronato la rinascita economica del paese, il governo era passato nelle mani di Hailemariam Desalegn. Ma oltre tre anni di proteste popolari – in particolare tra gli oromo delle aree centrali del paese – inarrestabili anche a fronte della dura risposta delle autorità centrali hanno spinto Hailemariam alle sorprendenti dimissioni di inizio anno, volte a permettere il passaggio ad una nuova fase politica. È proprio qui che si è inserito il successo a sorpresa della candidatura di Abiy, in grado di far coalizzare le componenti oromo e amhara – i due gruppi etnici più numerosi del paese – mettendo termine al lungo predominio politico dei tigrini all’interno dell’EPRDF. Figlio di padre oromo e madre amhara, il profilo etnico del primo ministro è stata una carta importante nel permetterne l’ascesa. Pur essendo poco noto all’esterno del paese, peraltro, Abiy è stato a lungo ai vertici dell’intelligence e conosce perfettamente i meccanismi interni alla coalizione di governo. La sua ascesa è stata in qualche modo facilitata dall’assetto formalmente parlamentare – un’anomalia nella regione – che, pur in assenza di democrazia, rende ben più agile la sostituzione di un primo ministro, non essendoci un mandato di durata prefissata come nei regimi presidenziali adottati dalla grande maggioranza dei paesi dell’area.

Il fronte che ha maggiormente conquistato ad Abiy l’attenzione dei media internazionali è però quello esterno. Accettando in maniera incondizionata il riconoscimento all’Eritrea dell’area di confine oggetto di disputa da due decenni, come del resto richiesto da un’apposita Commissione internazionale, Abiy è riuscito a rimarginare una profondissima ferita e a far “scoppiare la pace” – la rapidità con cui il tutto è avvenuto davvero giustifica l’espressione – tra Addis Abeba e Asmara. Le implicazioni sono vastissime per tutto il Corno d’Africa e riverberano ben oltre. Nella regione, le nuove relazioni tra Etiopia ed Eritrea sono la premessa per la fine dei loro scontri indiretti in Somalia – dove la prima appoggia da anni il fragile governo tornato a Mogadiscio, la seconda i jihadisti al-Shabaab che vi si contrappongono – e, in questo senso, rappresentano quindi un’importante tassello nel lungo percorso di pacificazione e ricostruzione di questo paese. Eritrea e Somalia hanno già ristabilito relazioni diplomatiche. Non solo, ma Isaias Afwerki, l’autocrate eritreo che, senza opporre resistenza, si è lasciato trasportare da Abiy in questo processo di riavvicinamento, vede così smontarsi la principale ragione della chiusura difensiva del suo regime – una chiusura politica quanto e economica – e dell’isolamento internazionale che ne è derivato. In un effetto a catena, i flussi migratori di chi fuggiva dall’Eritrea per unirsi alla diaspora, nella regione ma anche alla sua componente europea, non potevano che risentirne in maniera importante, con la plausibile prospettiva, nel lungo periodo, di una loro riduzione. Nel breve periodo, tuttavia, è prevalso un effetto “valvola di sfogo” e l’apertura del confine ha portato ad un fortissimo aumento degli arrivi eritrei in Etiopia. Né gli interessi internazionali per gli sviluppi nel Corno d’Africa si fermano ai flussi migratori. Vanno ben oltre, essendo cresciuta notevolmente, in questi anni, la rilevanza geostrategica dell’ingresso del Mar Rosso per paesi che vanno dagli Stati Uniti a quelli europei, dalla Cina ai paesi del Golfo come Emirati Arabi e Arabia Saudita.

La nuova leadership di Abiy rimarca quindi ulteriormente la centralità acquisita da Addis Abeba nell’Africa di oggi, in particolare sul versante orientale. Pur in presenza di alcune contraddizioni e segnali di rallentamento, il 7,5% di espansione del Pil stimata per il 2018 mantiene l’Etiopia in cima alle performance di tutta la regione. Sul piano politico, si aggiunge ora la prospettiva che l’“autoritarismo di sviluppo” di stampo cinese seguito da Addis Abeba diventi un po’ meno cinese – e Pechino potrebbe prenderne nota – e un po’ più democratico. La tenuta di leadership, aperture democratiche e tassi di sviluppo, tuttavia, continuerà ad essere messa alla prova non solo dalle numerose incognite di uno dei paesi più complessi della regione, ma anche dalle grandi aspettative generate dall’avvento di Abiy.

Giovanni Carbone ISPI

fonte ispionline.it