Robert è nato in Siria, ad Aleppo, classe 1963, anche se buona parte della sua vita l’ha trascorsa in Libano, proprio negli anni della guerra civile. Non ne ha perso neanche uno. Ci incontriamo in Italia, presso la sede dell’AMU (Azione Mondo Unito), dove si trova per fare il punto sui progetti sociali e l’organizzazione degli aiuti. Da tempo sui media italiani non si parla della Siria. Triste profezia, perché con l’accensione del fronte curdo purtroppo le cronache di guerra hanno riottenuto spazio nei tg.
“Apro la mappa ogni giorno per vedere dove si combatte”, spiega Robert, mostrando la cartina di guerra della Siria in tempi reale. “Adesso c’è la zona dei curdi che è già infiammata. La zona rossa è sotto il controllo del governo, quella verde di Al Nusra, al confine con la Turchia. L’Isis dicono che non c’è più. Io dico che è finito il loro ruolo. Siamo tornati alla stabilità di prima? No. L’azione militare non è una soluzione. È una toppa, questa pseudo pace è solo temporanea. Nessuno conosce il futuro della Siria. Tornerà ad essere una nazione unita? Sarà una federazione di regioni autonome? È tutto legato alla politica internazionale, e agli interessi di tante nazioni. Ciascuno fa il suo gioco. E chi paga il prezzo più alto di tutto questo? Il popolo. E il grande dolore è che la gente continua ad andar via”.
Nel 1990 sei tornato nel tuo Paese di origine per aprire il primo centro dei Focolari, e sei rimasto ad Aleppo per 18 anni, prima di ritornare in Libano nel 2008. Qual è il tuo ricordo della Siria di quel periodo?
“In quegli anni ho visto come la Siria è evoluta. Il regime non ha impedito il progresso del Paese. Ho assistito ad una fioritura sotto tutti i livelli: la Siria era piena di turisti, l’economia era al massimo. Prima della guerra lo stipendio minimo era di 500 $, adesso per dare un’idea è di 50$. L’apice è stato nel 2010. Con la primavera araba nel 2011 sono cominciati i problemi interni da cui poi è cominciata la guerra”.
Come hai vissuto gli anni della guerra in Siria, stando a distanza in Libano?
“È stata una grandissima sofferenza. Vedevo il mio Paese che sta scomparendo, la popolazione che soffre, ricevevo costantemente notizie dai nostri amici in Siria. Sentivo che non potevo fare niente, ero contento dei progetti sociali, avrei voluto essere vicino alla mia gente, ma non era possibile lasciare il Libano in quel momento. Era dura vedere il mio Paese in quelle condizioni ed essere incapace di fare qualcosa. Il dolore più grande era vedere i rifugiati siriani arrivare in Libano. Quelle persone le conoscevo! Gente onesta, che lavorava bene, che sarebbe stata una risorsa per il Paese, ed era costretta a partire. Non si poteva fare altro”.
Nel gennaio 2017 torni in Siria, un mese dopo la liberazione di Aleppo. Cosa hai trovato?
“Per prima cosa mi sono messo in contatto con le persone che conoscevo e che sapevo erano rimaste lì, e anche con i tanti che non conoscevo ancora, ma che erano entrati in contatto con il Focolare durante la crisi, soprattutto tanti giovani. Ma sono rimasto tre mesi “a casa”, in una cerchia ristretta. Non volevo andare a vedere le rovine di Aleppo. Solo dopo tre mesi ho trovato il coraggio di uscire e vedere la parte più bella della città, rasa al suolo. Il vecchio mercato del 6° e 7° secolo, o la Moschea degli Omayade… luoghi che conoscevo benissimo perchè lavorando nel turismo ho girato tutta la Siria, scoprendone tutta la ricchezza archeologica, storica e artistica. Rivedere i posti di cui mi sono sempre “vantato”, o meglio, vedere che non esistono più, è stato uno choc. Quando sono andato per la prima volta al vecchio Suk, dove trovi solo macerie, vicino alla Moschea distrutta per più della metà, qualcuno mi spiegava: “qui sono entrati i ribelli, qui è venuto l’esercito…”. Ero in silenzio, non volevo sentire neanche i dettagli militari. Pensavo solo a quante persone erano morte in quel luogo, e a chissà come erano morte. Ribelli o non ribelli, cosa è passato nel loro cuore nell’ultimo istante di vita? Mi chiedevo. E sentivo di non dover giudicare neanche quelle persone che hanno distrutto la mia città. Questi luoghi distrutti erano luoghi sacri”.
Come hai trovato le persone al tuo rientro?
“Scoraggiate e deluse. Ma anche desiderose di andare avanti. Chi ha deciso di rimanere, ha tutta la forza di voler fare qualcosa per il Paese. Sono sentimenti mescolati. C’è di sicuro una stanchezza degli anni passati, delle condizioni di vita, ma allo stesso tempo la buona volontà di ripartire”.
Qualcuno comincia a tornare in Siria?
“Sì, ma pochi. Forse qualcuno che è andato in Europa e non si è trovato bene, o chi è ancora nei campi profughi, ma tornano soprattutto quelli che si erano rifugiati in zone più pacifiche della Siria, quelli di Aleppo che erano andati sul litorale o in altre zone sono tornati quasi tutti.
Cosa diresti a chi guarda la Siria da fuori? Cosa si può fare per la Siria oggi?
“Sicuramente, per chi ha una fede, continuare a pregare. E poi, scommettere con i siriani che il Paese è vivo. In Siria abbiamo bisogno di speranza. Di sostegno – e non parlo solo dal punto di vista economico, certamente importante -, ma di credere con noi che questo Paese, culla di civiltà, può rinascere. Che ancora la pace è possibile. L’importante è non restare indifferenti. E a chi si chiede: cosa posso fare io per la Siria? Dico: pregare, dare un contributo personale, un professionista può venire per un periodo di volontariato… adesso la situazione è più sicura. Abbiamo bisogno di sentire che il mondo sente la nostra sofferenza, quella di un Paese che sta scomparendo. La Siria deve esserci”.
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