di Letizia De Torre*
Sto seguendo con una personale partecipazione la situazione catalana non solo perché ci riguarda
tutti come europei, non solo perché rompere il dialogo e arrivare alla violenza è una sonora sconfitta politica da tutte le parti, ma perché sono figlia anch’io di una Autonomia e sento battere dentro istanze e aspirazioni che mi fanno comprendere i sentimenti dei Catalani e di tutte le minoranze del mondo.
E il mondo è fatto di minoranze che in questo tempo paiono prendere un forza centrifuga e frammentare il mondo: i Balcani, ferita ancora aperta, il Medio Oriente tutto, fino al referendum del Kurdistan irakeno di questi giorni, il Cameroon anglofono di queste ore, la Brexit, fino alla scossone politico catalano … Credo che vi siamo arrivati per colpevole insufficienza politica, non conoscenza e non competenza nei confronti dei popoli e delle minoranze.
Non desidero qui analizzare i fatti della Spagna che hanno portato a questa situazione estrema, né commentare alcuna posizione, né tanto meno prendervi parte, né parlare degli errori che sono sotto gli occhi di tutti (anche se ciascuno vedrà di più quello dell’altra parte). Anzi, vorrei sostenere che, a mio avviso, né le migliori analisi politiche, né la ripresa del dialogo, saranno sufficienti. Occorre di più. Occorre una nuova visione che conduca con urgenza ad un progetto innovativo, globalmente e all’interno degli stati, un progetto di unità nella distinzione dei popoli e dei territori. Cerco di esprimerlo meglio, partendo da una personale esperienza politica.
Era il 1995. Sul tavolo del Presidente della Repubblica italiana arrivò un dossier a proposito del progetto di una Euro-regione tra le provincie di Trento, Bolzano/Bozen (entrambe in territorio italiano) e Innsbruck (in territorio austriaco): eccessi indipendentisti, interessi economici locali e addirittura gruppi militari (i folcloristici Schutzen tirolesi!), addestramenti e depositi di armi. Timori di una Roma centralista. Ma per noi, in quelle terre determinate a sviluppare la propria Autonomia, era tutt’altro. Era il progetto appassionante di una regione europea in cui riconciliare politicamente le popolazioni italiana, tedesca e ladina, dopo le due guerre mondiali. Ci sentivamo europei e volevamo contribuire ad un’Europa più forte e più sentita, più ‘regionale’ che ‘nazionale’. Io ne ero convinta, anche per essere figlia di un profugo e credevo che occorresse andare oltre i confini, dentro un’Europa dei popoli.
L’allora Presidente Scalfaro, senza perdere tempo, venne a Trento e fece uno storico intervento, aperto, ma molto fermo: ”Attenti a non contrabbandare altro al posto dell’ autonomia. Si possono avere idee, desideri e prospettive diverse. Ma la carta costituzionale resta garanzia su tutto.”
Nello stesso tempo, però, si espresse con molto rispetto, affermando tra il resto che “lo Stato l’autonomia non la dona, la riconosce”. Seppe dare valore alle nostre ispirazioni autonomistiche ed europeiste, ma ci chiese di rallentare, per poterlo fare “in unità con Roma e con Vienna”. Colpì nel segno. Sentii di aderire con convinzione, proprio perché facevo politica per l’unità e non per la contrapposizione. Presi carta e penna e scrissi di getto alcune righe al Presidente. Diedi quel foglio a qualcuno della scorta. Due giorni dopo ricevetti una telefonata del Presidente Scalfaro, in cui nacque una intesa ideale e politica.
Quella chiarezza di Scalfaro diede un respiro più sicuro e più alto alla collaborazione tra Trento, Bolzano e Innsbruck, che da allora ha continuato a consolidarsi, anche con una più intensa collaborazione in comuni politiche pubbliche regionali.
L’Euro-regione però è rimasta sulla carta e non perché non vi avessimo continuato a lavorare, ma perché nel frattempo gli Stati nazionali avevano rivendicato il proprio peso dentro l’Unione europea, via via addossando all’Unione carenze di politica interna, cessando di parlare di uno sviluppo politico dell’Europa e facendo percepire ai cittadini le regole della convivenza comune europea come un peso, anziché un’opportunità. E ciò accadde parallelamente anche a livello mondiale, dove le grandi organizzazioni tra i popoli hanno via via perduto efficacia e il sovranismo crescente ha esasperato richieste di indipendenza.
Ogni giorno che passa rende più urgente riprendere in mano il filo perduto.
L’allora Presidente della Repubblica italiana, parlando ad una sala che ‘bolliva’ di autonomia, ebbe coraggio di non umiliare, di non frenare, ma anzi di affermare: “L’autonomia è il respiro dell’unità”, “Occorre grande chiarezza, rispetto delle norme, grande equilibrio di tutti”. Saper rinunciare “a un pezzo di sé e a un marchio personale, per far prevalere l’armonia comune.”
Oggi queste parole mi paiono avere un peso politico universale e rilevante, in un mondo profondamente cambiato, globalizzato, connesso… un mondo che non sappiamo ancora capire e per cui non siamo ancora preparati a lavorare politicamente. Tra le tante sfide, una è vitale per la pace: la contrapposizione unità nazionale/autonomia, globalismo/identità, comunità politiche ampie/localismi. Forse la chiave per tale sfida è dentro una comprensione nuova di cosa significhi unità di una comunità politica.
Affermare, infatti, come fece Scalfaro, che “l’ autonomia è il respiro dell’unità”, significa dire che l’unità non è uniformità, non è annullamento delle differenze, non è dominio da parte del più forte. L’unità di una comunità politica ampia, al contrario, è relazione tra identità politiche distinte, che si riconoscono e si rispettano. Ed è una dimensione dinamica, in cui le entità politiche debbono essere in grado di unirsi per progetti comuni e, contemporaneamente, di distinguersi per progetti locali. Non si tratta di scegliere tra lo stato e le regioni, o tra universalismo e identità nazionali. L’essere parte di una realtà più vasta non contrasta con l’esigenza di far crescere la storia del proprio popolo. Non contrasta, appunto, perché non è uniformità, ma relazione.
E’ una chiave da usare in fretta, con “chiarezza”, “rispetto”, “equilibrio di tutti” e, per richiamare ancora Scalfaro, con la rinuncia “a un pezzo di sé e a un marchio personale, per far prevalere l’ armonia comune.” Chi può fare il primo passo? Tutti, ciascuno prima dell’altro, se si potesse dire.
Uno dei passi di maggior rilievo è, a mio avviso, richiesto agli “stati nazionali”, perché sono stati concepiti per un secolo che si è chiuso e, stretti come sono tra globalismo e localismo, hanno necessità di ristrutturare il proprio ruolo per non accendere tensioni, ma piuttosto facilitare l’unità.
Un altro passo importante è richiesto a ciascun territorio, al di là della misura di autonomia di cui oggi goda. Quando ci si reca nei parlamenti, o nei luoghi di concertazione nazionali o sovranazionali, non si possono difendere solo gli interessi di casa propria. I territori degli altri vanno amati come il proprio, perché in quel momento ‘costituiamo insieme’ quella comunità politica più ampia. Essa diventa una nostra casa più grande e richiede rispetto reciproco, solidarietà e giusta ripartizione delle ricchezze, a cui tutti dobbiamo pensare.
Tornando alla Spagna e alla Catalogna, mi piacerebbe che alla fine potessimo essere grati a questo incidente di percorso che – se ci svegliamo – ci può consentire di ritornare al vero progetto europeo poggiato sulle genti, sulle città, sulla ricchezza delle lingue, dei territori, delle minoranze, sulla riconciliazione di una storia sofferta da tutte le parti.
Un tempo indicavamo tutto questo con “Europa dei popoli”. Ma non importa come la vorranno chiamare le nuove generazioni europee di oggi, perché il mondo ha camminato molto negli ultimi due decenni; ed anche al progetto europeo va fatto fare un salto di qualità e va meglio inserito nelle dinamiche internazionali attuali. Questo ‘salto’ è proprio dei giovani: loro sono in grado di reagire positivamente e di ritrovare il filo di una vera unità dei popoli europei. Spetta a noi, che abbiamo saputo sognare l’unità europea, passare il testimone, offrire loro l’esperienza, la valutazione dei successi e degli insuccessi. E camminare al loro fianco fino all’ultimo nostro giorno, perché l’Europa – e così pure l’unità tra i popoli nel mondo – sono un grande ideale, per cui vale la pena di spendere la vita intera.
*Presidente Centro Internazionale MPPU
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