27 maggio 2018  di Emiliano Guanella

maduro venezuelaRabbia, impotenza, rassegnazione. Il giorno dopo il controverso voto che ha confermato Nicolas Maduro alla presidenza del Venezuela per il periodo dal 2019 al 2025, a Caracas la gente si è svegliata con una certezza; non c’è più spazio, date le condizioni, per una soluzione politica alla drammatica crisi che attraversa il paese sudamericano.

Il futuro, in sostanza, non promette nulla di buono. Dal palco davanti al Palazzo di Miraflores, lo stesso dove Hugo Chavez celebrava trionfi ben più consistenti, Maduro ha ripetuto più volte che il “ciclo elettorale” è terminato; in un anno il CNE, la Corte nazionale elettorale, ha organizzato i comizi per l’Assemblea Costituente, per i governatori regionali, i sindaci e, infine, il presidente. I principali partiti dell’opposizionehanno disertato questi appuntamenti, chiamando ad un boicotaggio che per molti analisti si è rilevata un’arma a doppio taglio; se da un lato hanno reso evidente davanti alla comunità internazionale l’arbitrarietà dei processi elettorali, svolti senza osservatori internazionali e giudici imparziali, dall’alto hanno comunque lasciato in mano al chavismo quasi tutte le cariche pubbliche.

Il Venezuela si incammina in una situazione virtuale da partito unico alla cubana, pur conservando una parvenza fragilissima di vita democratica. L’unico leader oppositore a presentarsi alle elezioni del 20 maggio è stato Henri Falcon, ex governatore del Lara, un passato nel chavismo e nella MUD, il tavolo antichavista che si è spaccato dopo la vittoria nelle legislative del 2015. Poco prima dell’annuncio dei dati ufficiali, Falcon è comparso in televisione denunciando i brogli e non ha riconosciuto l’esito del voto. Subito dopo Nicolas Maduro ha annunciato il “suo” trionfo; 68% dei voti validi, quasi sei milioni di consensi in un’elezione segnata dall’affluenza più bassa degli ultimi 50 anni, ferma al 48%. Numeri che secondo l’opposizione sono stati gonfiati ad arte e che cozzano, in effetti, con la desolante immagine dei seggi vuotiregistrati in diverse città dalla stampa internazionale. Non essendoci osservatori accreditati, la OEA, le Nazioni Uniti e l’Unione Europea non sono stati autorizzati a mandare loro inviati, è probabile che non si saprà mai la verità su quanti venezuelani sono andati a votare e quanti appoggiano davvero il governo in carica.

Tutto questo sembra non importare al chavismo, che considera gli oppositori dei traditori della patria e continua a sostenere la teoria del complotto internazionale per giustificare la drammatica crisi economica in corso. Per Maduro è in atto una “guerra economica” orchestrata dagli Stati Uniti, i paesi latino-americani e l’Europa. Una tesi inveritiera, giacché le ragioni del collasso dell’economia venezuelana sono tutte da cercare nella pessima gestione economica del suo governo, dall’incapacità cronica del chavismo di sostenere un sistema produttivo nazionale che non dipenda eccessivamente dalle entrate pretolifere, che valgono oltre il 90% del Pil.

Nel 2000 il Venezuela produceva tre milioni di barili di petrolio al giorno, oggi sono meno di 1,5 milioni. La statale Pdvsa non ha fatto negli ultimi anni l’adeguata manutenzione nei pozzi esistenti, spenendo troppo nella ricerca e sfruttamendo del bacino dell’Orinoco, una scommessa che si è rivelata troppo onerosa rispetto ai risultati raggiunti. Da Chavez in poi sono state espropriate centinaia di fabbriche seguendo un confuso progetto di economia popolare; la stragrande maggioranza di esse è fallita, al punto che oggi in Venezuela non si produce quasi nulla e quel poco che si trova sugli scaffali dei supermercati è importato.

L’iperinflazione galoppante, stimata per il 2018 intorno al 14.000% dal Fmi, ha polverizzato il potere d’acquisto dei salari e oggi 8 famiglie su 10 vivono sotto la soglia di povertà, nella lotta quotidiana per la ricera di cibo a prezzi accettabili. Una famiglia di classe media, se vale ancora questa definizione, spende in media il 90% del suo reddito per generi alimentari. Maduro ha aumentato ripetutivamente il salario minimo, ma la corsa contro il caro-vita è persa in partenza; l’ultimo aumento lo ha portato a un milione di bolivares, che al cambio nero equivale a circa 1,2 dollari, quando un kg di carne costa 4 milioni di bolivares. Una penuria che ha spinto motlissimi venezuelani ad andarsene; 1,5 milioni le persone che hanno lasciato il paese negli ultimi cinque anni secondo le Nazioni Unite, l’equivalente del 5% della popolazione. La crisi ha connotati drammatici nel campo della salutenon si trovano medicine se non al mercato nero, a prezzi proibitivi. Secondo la ONG “Accion Solidaria” almeno 3.000 persone con HIV sono morte dall’inizio dell’anno per la mancanza di retrovirali, 70 trapiantati hanno avuto un rigetto d’organo. Ogni settimana muoiono almeno tre pazienti dei 36.000 parkinsoniani presenti in Venezuela; una scatola di Sinemet, medicina essenziale per curare gli spasmi muscolari, costa sottobanco più di dieci milioni di bolivares. Le cure oncologiche sono ridotte al minimo; non c’è radioterapia ed è impossibile ricevere trattamento chemioterapico in strutture pubbliche. Le associazioni dei malati cronici hanno chiesto l’intervento straordinario della OMS, ma il governo si rifiuta di ammettere lo stato di emergenza.

Mentre la gente muore di malattie o passa letteralmente la fame, gli indici di denutrizione non sono mai stati così alti, i dirigenti dell’opposizione invocano un intervento esterno, attraverso sanzioni economiche, isolamento finanziario, e c’è chi sottovoce spera addirittura in un intervento armato. La comunità internazionale non ha riconosciuto la rielezione di Maduro; gli Stati Uniti hanno annunciato il giorno dopo la proibizione per qualsiasi persona o impresa americana di stabilire rapporti commerciali con il governo venezuelano o le imprese ad esso collegate. Una sanzione che non riguarda, per ora, la vendita di petrolio; un terzo del greggio di Caracas è venduto negli Stati Uniti. Il Venezuela è ormai in default selettivo e se le finanze pubbliche non sono crollate è a causa della “grazia” che sta ricevendo dai due principali creditori,la Russia e la Cina che, per ora, non sembrano aver fretta di rientrare. Dal 2010 ad oggi Pechino ha prestato 45 miliardi di dollari, ai quali si aggiungono 25 miliardi di interessi; Caracas ha pagato finora 37 miliardi di dollari attraveso invii petroliferi. L’aumento del prezzo del greggio, di per sé, non basta per ridare ossigeno all’economia venezuelana, se non si avvieranno riforme drastiche che, al momento, Maduro sembra non voler prendere. La rivoluzione bolivariana ha prolungato la sua vita politica con la rielezione del presidente, ma dal punto di vista economico sembra destinata a scagliarsi contro un muro; immersa in una crisi che, considerando tutte le variabili, non può che peggiorare nei prossimi mesi.

Fonte: www.ispionline.it/